Un Chiesa “per ricchi”, sempre più ridotta nei numeri. E una “in uscita”, che punta a smarcarsi da facili legami economici. Sono le due Chiese: della Germania e di Francesco.
Com’era prevedibile, i media hanno fiutato l’opportunità di movimentare il dibattito delle settimane estive, di solito assopite dal clima pre-vacanziero, sebbene fra recovery fund e pandemia covid gli spunti già non mancassero. È così che il destino dell’Istruzione diffusa dalla Congregazione per il Clero, La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa, sembra segnato: è già l’ennesima “rivoluzione di Francesco”.
Da questo punto di vista, in verità, la presentazione del documento redatta da mons. Andrea Ripa è molto chiara: lo scopo è cercare «di valorizzare ogni carisma e di preservare la Chiesa da alcune possibili derive, come “clericalizzare” i laici o “laicizzare” i chierici, o ancora fare dei diaconi permanenti dei “mezzi preti” o dei “super laici”». Tanto più che, come si precisa, «così come quelli del 1997 e del 2002, il presente documento non contiene “novità legislative”». Puntualizzazioni preziose, ma che in nulla hanno smorzato la spasmodica ricerca di scoop da parte dei novatori contemporanei.
Abbagliati e quasi storditi dal punto n. 98 – nel quale sono contenute le ormai celebri norme sul ruolo di diaconi, consacrati e laici in alcuni sacramenti, in grado di rievocare le attese del Sinodo dell’Amazzonia – il rischio è che si perda di vista buona parte dello spirito dell’Istruzione, che appartiene alla visione di Chiesa più volte espressa da papa Francesco, a cominciare dal richiamo contenuto nel titolo: una conversione pastorale in senso missionario della comunità parrocchiale, fondata su evangelizzazione, testimonianza e responsabilità.
Un elemento appare di particolare interesse. Si tratta della riflessione sulle “Offerte per la celebrazione dei Sacramenti” contenuta ai nn. 118-121, quasi in conclusione al documento. Al di là della focalizzazione sull’«offerta data per la celebrazione della S. Messa, destinata al sacerdote celebrante, e degli altri sacramenti, che spetta invece alla parrocchia» (n. 118), infatti, è possibile allargare la riflessione all’intero approccio della Chiesa alle finanze, soprattutto se letta in continuità con gli interventi del Papa in materia di trasparenza, di antiriclaggio e con la recente riorganizzazione degli uffici della Fabbrica di San Pietro.
Le offerte connesse all’amministrazione dei sacramenti, precisa l’Istruzione, sono infatti da intendersi come «atto libero da parte dell’offerente, lasciato alla sua coscienza e al suo senso di responsabilità ecclesiale, non un “prezzo da pagare” o una “tassa da esigere”, come se si trattasse di una sorta di “imposta sui sacramenti”». Non a caso, quindi, si evoca un impegno anzitutto culturale, di mentalità e «di sensibilizzazione dei fedeli, perché contribuiscano volentieri alle necessità della parrocchia, che sono “cosa loro” e di cui è bene che imparino spontaneamente a prendersi cura» (n. 119).
Una riproposizione della casa comune, dunque, nella quale tutti sono chiamati a fare la propria parte, “volentieri” e “spontaneamente”. «Tale conversione comporta vari atteggiamenti che si coniugano per attivare una cura generosa e piena di tenerezza. In primo luogo implica gratitudine e gratuità, vale a dire un riconoscimento del mondo come dono ricevuto dall’amore del Padre, che provoca come conseguenza disposizioni gratuite di rinuncia e gesti generosi anche se nessuno li vede o li riconosce», scriveva nel 2015 papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ (n. 220). Un approccio del tutto applicabile anche alla parrocchia, a suo modo un mondo, e non necessariamente su scala ridotta, se l’auspicio è di instaurare quello che nel documento viene definito un «dinamismo in uscita» (Istruzione, n. 123), forte della collaborazione tra comunità parrocchiali diverse e di una rinsaldata comunione tra chierici e laici. D’altronde, per tornare a dirlo con le parole della Laudato si’, sussiste «la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso» (n. 16) e «se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea» (n. 11).
L’appello a non far coincidere il senso di responsabilità ecclesiale – sobrietà e cura – con una “tassa da esigere” non può non condurre il pensiero alla situazione della Chiesa che vive all’ombra di Berlino. Tanto più che è di questi giorni la notizia che essa ha ricevuto attraverso la “tassa sulle religioni” (Kirchensteuer), alla quale sono chiamati a contribuire i fedeli tedeschi, la somma record di 6,76 miliardi di euro nel 2019, 100 milioni di euro in più rispetto al 2018. Al di là delle ovvie differenze in termini di legislazione fra Italia e Germania, dove non sussiste un sistema di finanziamento del tipo presente in Italia attraverso l’8xmille, il pericoloso controsenso è che l’aumento dei fondi raccolti in Germania è attribuibile esclusivamente ad un aumento della ricchezza tra i fedeli cattolici tedeschi (la tassa è proporzionale reddito), e non al loro numero. Nel 2019, infatti, la Chiesa cattolica in Germania ha perso qualcosa come 273 mila fedeli iscritti alle liste dei contribuenti – un altro record, per inciso – che si aggiungono agli oltre 216 mila già venuti meno nel corso del 2018. Come a dire: ci sono sempre meno fedeli, ma sono sempre più ricchi e soltanto questo ha compensato, almeno finora, le perdite in termini economici.
Nel giugno 2018 papa Francesco ha inviato una lettera alla Chiesa in Germania, nella quale richiamava l’attenzione sulla «crescente erosione e deterioramento della fede». Una questione rispetto alla quale non è possibile attendere oltre e per la quale le proposte peregrine emerse finora nella Conferenza Episcopale Tedesca – senza soluzione di continuità nel tandem Marx-Bätzing tutte orientate verso “rivoluzioni”, “aperture” e “ammodernamenti al passo con i tempi” – hanno sortito l’unico effetto di allineare l’emorragia cattolica a quella delle confessioni protestanti, da più tempo alle prese con riforme controproducenti. Tanto il senso di “casa comune” quanto il dinamismo missionario sono chiaramente venuti meno in gran parte della Chiesa tedesca, al di là di strategie e proclami roboanti.
Anche i rapporti con papa Francesco, sovente indicati come idilliaci, negli ultimi anni non sono apparsi tali, con agende tutt’altro che coincidenti. Ultimo screzio in ordine di tempo, l’aperta presa di distanze di un presbitero tedesco, Felix Körner, dalla tristezza manifestata nei giorni scorsi dal Pontefice per la trasformazione della basilica-museo di Santa Sofia in moschea. «Papa Francesco afferma di essere triste per questo. Cosa c’è che può rattristare nella riconversione in luogo di culto di un museo, che non è servito come luogo di culto e che è stato trasformato in un luogo da visitare a causa del secolarismo di Ataturk? Non può affliggere una persona pia. Possiamo solo esserne felici», ha detto Körner, gesuita, islamologo e docente di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana. Chiaramente una posizione personale, ma comunque rappresentativa di un sentire comune diffuso nella Chiesa in Germania. Quando si dice: non sentirla come “cosa propria”.
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1 commento su “Il buon grano e la cattiva grana. La Chiesa di Francesco e quella in Germania marciano su binari divergenti”