Dalla Grecia classica al mondo bizantino, dall’età Romana agli apporti dell’Oriente, l’Italia ha nella sua identità migrazioni, invasioni e culture. Quale allora il maggior nemico di una “identità italiana”? Gli italiani e la moderna tendenza ad una identità liquida.
Nel V secolo furono gli Ostrogoti e i Visigoti, nel VI i Longobardi; e ancora Marcomanni, Vandali, Alemanni, Eruli. I secoli che accompagnarono e seguirono il disfacimento della parte occidentale dell’Impero Romano fecero dell’Italia una terra di popoli coabitanti e culture combinate, che posero le basi tanto della capacità di adattamento degli italiani, quanto di una buona dose di volubilità. Popoli in marcia, invasioni armate, ma anche incontro, scambio ed inclusione, stimolarono negli abitanti della Penisola la capacità, storicamente ineguagliata, di convincere e convertire socialmente, culturalmente e religiosamente l’ampia varietà dei popoli con i quali vennero in contatto. Una capacità che oggi sembra perduta, non senza ragioni.
Nonostante sia giunta più tardi all’unità politico-territoriale rispetto ad altre formazioni statuali, l’Italia trovò nell’eredità classica, nelle memorie della latinità e nel Cristianesimo, diffuso nella Penisola sin dal tempo degli apostoli, alcuni degli elementi che contribuirono a fornire al Paese, se non un’unità politica, almeno una generale comunione di intenti. Di primo piano fu il ruolo del Cristianesimo nella sfera religiosa, sociale ed educativa. Un ruolo, quest’ultimo, che se da un lato mostra oggi alcuni segnali di difficoltà, dall’altro si pone fra i pochi elementi di sfida all’individualismo dilagante. Assumono pertanto ancora maggior rilevanza le tendenze ad un quiescente appiattimento su posizioni mondane. Quanto, infatti, l’ancora massiccia adesione professata dagli italiani al Cristianesimo ha un senso reale, e non è invece mera ritualità formale, memoria storica che sfuma in abitudine, addirittura opportunismo civile e politico? Recenti indagini hanno impietosamente evidenziato come manchi agli italiani l’interesse per una cultura – e conseguentemente una vita – religiosa.
Non stupisce quindi che se da un lato gli italiani avvertono lo straniero immigrato come minaccia contemporaneamente sociale, culturale e religiosa, dall’altro appare sempre più diffusa la pretesa di conseguire un’identità attraverso scorciatoie, artificiose costruzioni di immagini di sé, possesso di oggetti. Una prospettiva tutta rivolta all’individuo che, inevitabilmente destinata a fallire e frustrare, conduce alla perdita dei valori umani, della propria storia, alla strumentalizzazione e all’utilitarismo. In ultima analisi alla perdita stessa dell’identità.
Desolante, ma scontato prodotto dell’atteggiamento consumista, della duttilità e intercambiabilità dei valori, della concezione utilitaristica della persona umana è l’emarginazione – e in casi estremi l’eliminazione fisica più o meno disvelata – dei più deboli, anziani e infanti su tutti.
La permeabilità dell’individuo all’influenza dei media e delle mode, l’induzione all’acquisto compulsivo e identitario, ingenerano una società dei consumi sospesa in un eterno presente orientato al soddisfacimento e alla futilità, una non-società priva di progettualità e dunque di futuro; una società mancata, troncata nella memoria, dunque indifferente all’etica e alla solidarietà, tiepida verso la cultura, disgregata nella famiglia.
Tutto ciò che non è economico appare sempre meno importante. La persona – italiana o straniera – è tollerata solo se economicamente rilevante, e ad essa ci si rapporta sempre più come ad un mero soggetto-oggetto economico, inserito nelle logiche e nelle transizioni di un mercato in grado di concentrarsi sul solo impoverimento economico – al quale è comunque inevitabilmente incapace di fornire soluzioni adeguate – e che appare invece del tutto insensibile alla spoliazione dell’identità umana e culturale della persona e della società delle persone.
Nell’immagine: Altare di Ratchis, 737-744, arte longobarda del periodo liutprandeo, Udine, Museo diocesano cristiano e del tesoro del duomo di Cividale del Friuli.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.
Anche su Il Sismografo