I terroristi strappano i morti dai nostri ospedali. Così ci fanno paura

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«Sora nostra morte corporale». Per gran parte della sua storia l’uomo ha vissuto con la morte. Un atteggiamento di familiarità, un misto di rassegnazione e fiducia. Sono trascorsi decenni, ma sembrano passati secoli, durante i quali la morte è diventata una parente sempre più lontana, scomoda e innominabile.

Nella moderna società occidentale, dove la vita deve essere sempre felice o almeno averne dannatamente l’aria, l’intolleranza verso la morte, il desiderio di risparmiarne al morente e ai familiari il turbamento, ha confinato il morire a tempi e luoghi precisi. Non si muore più nella propria casa ma in ospedale. La morte non giunge più improvvisa, ma è attentamente programmata attraverso l’aborto, l’eutanasia, la guerra intelligente. Privata del suo mistero, la morte è diventata un evento tecnico, governato dalla burocrazia e dall’equipe sanitaria. Una morte accettabile è una morte accettata o tollerata dai superstiti e sempre più spesso anche dal morente, priva di variabili impreviste e di forti emozioni che creano imbarazzo. Nell’uomo moderno è sempre più lontana la consapevolezza di essere un morto a breve termine: si ammette che un giorno si dovrà morire, ma in realtà ci si pensa materialmente eterni.

Effetti di un nichilismo che da un lato indebolisce la volontà di esistere e dall’altro rende impossibile trovare nelle nostre culture tecnologiche la serena fiducia nel destino che per tanto tempo gli uomini hanno manifestato morendo. Paradossi di un materialismo che ha fatto della rimozione e della dissimulazione un’arte e che ci spinge a trincerarci dietro la difesa di valori occidentali sempre più presunti, del diritto al divertimento, sostenuti dalle false certezze di una vita libera da opporre alla barbarie dello straniero. Scoprendo che l’assassino è cresciuto fra le nostre case ci fa orrore perdere anche il conforto dell’alterità, del terrorista gettato da lontano nel quieto stagno della nostra quotidianità. Troppo, per non attaccarci voracemente ai suffissi: franco-tunisino, tedesco-iraniano.

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Il terrorismo ci fa paura perché strappa i nostri morti dall’anestetizzante enclave degli ospedali per gettarli sulle nostre strade. Perché vanifica la rassicurante contabilità della morte che giunge soltanto in età avanzata. Perché confuta, colpo dopo colpo, le illusioni alle quali abbiamo lavorato alacremente per decenni attraverso la medicina, la tecnologia, i mezzi di comunicazione, la diseducazione. Portando l’assassinio nelle nostre città, il terrorismo svela la falsità della promessa politica alla quale in troppi avevamo creduto o preteso di credere: che la morte uscita dalle nostre fabbriche e caduta dall’altezza dei nostri aerei sulla bassezza delle esistenze di persone lontane e sconosciute non sarebbe rientrata nelle nostre vite. Le bombe intelligenti, «sgancia e dimentica», non ci appartenevano. La guerra, profondamente mutata in questi anni, prima nella nostra concezione che sui campi di battaglia, non era affar nostro, se non nelle rassicuranti finestre aperte dai media sui soldati, i civili, i bambini nati e morti in Paesi dei quali non abbiamo una cartolina fra la nostra posta o una calamita sul frigorifero.

Fastidioso, ma non inutile, è ricordare che quello che si agita di fronte ai nostri occhi è il mondo prodotto anche da una serie di interventi irresponsabili – dall’Iraq, alla Libia e alla Siria – che molti uomini politici oggi guardano dalla tranquillità delle fortezze morali, politiche ed economiche che si sono costruiti attorno, indifferenti di fronte alla sorte delle migliaia di persone che in questi anni hanno perso la vita, gli affetti, la casa, la gioia, il futuro. Sarebbe tragicamente facile – ma illusorio – pensare che i terroristi uccidano oggi in nome di una vendetta per le nostre azioni, quasi tanto quanto pensare che lo facciano realmente in nome di Dio o di una visione fanatica della religione. Non sarebbe comunque una giustificazione. «Siamo in guerra». Ci coglie impreparati. Che sia una scoperta, non solo per Hollande? Forse saremo infine costretti a parlare della morte. Della brutalità della guerra nella quale le parti in conflitto si uccidono con ogni mezzo a disposizione. Al diavolo il romanticismo dei cavalieri e la supremazia tecnologica. Rimane solo il sangue, troppo spesso innocente.

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Uccisioni di inermi, violazione di luoghi sacri, brutale creazione di martiri? Se questo è il terrorismo, allora l’Europa ha ancora molto da insegnare. Se questi terribili crimini sono la dimostrazione dell’abominio cui l’uomo è capace di giungere mosso dall’odio e dal fanatismo, allora per l’Europa – per gli europei, per noi – non sono che gli ennesimi. Perpetrati, prima ancora che subiti. Le reti di Auschwitz, che per la prima volta nella sua vita papa Francesco visiterà venerdì, hanno molto da ricordarci.

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