Tu scendi dalle stelle significa Natale. E amore. E di amore la letteratura italiana ha un vero esperto: Dante. Che nella Divina Commedia…
Canto di Natale fa rima con Tu scendi dalle stelle. Impossibile non incontrare – e cantare – almeno una volta questa poesia in musica nel ciclo delle celebrazioni del Natale. Canto delle tradizione e dell’infanzia. A comporlo, nell’imminenza del Natale del 1754, è Alfonso Maria de’ Liguori, santo campano e dottore della Chiesa, al quale è attribuita anche la stesura del canto originale, in napoletano, Quanno nascette Ninno. Narrazioni semplici, pensate per gli “scartati” del suo e di ogni tempo e per «giovare alla divozione d’ogni sorta di persone», come scrive lo stesso Alfonso Maria de’ Liguori nella prefazione all’opera. Ma anche testi pastorali, in tutti i sensi: Pastorale nel nome e nel genere, originariamente; nella melodia, che rimanda al suono della zampogna dei pastori abruzzesi e amalfitani; pastorale, infine, anche e soprattutto nella sapiente armonia fra tre grandi tradizioni: la storia della nascita di Gesù, la tenerezza della pietà popolare e la cristologia che rimanda all’incarnazione del Figlio di Dio. Amato dagli uomini infinitamente meno di quanto lui non li abbia amati.
Proprio sull’amore – dato, ricevuto, ispirato – si gioca uno dei passaggi chiave dell’intero canto, nonché alcuni fra i versi più noti della tradizione del Natale: «Quanto questa povertà / più m’innamora, / giacché ti fece amor povero ancora». Come a dire: amare di più perché più amati. Irresistibilmente. Ricorda nulla? «Amor, ch’a nullo amato amar perdona». È il verso 103 del canto V nell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri, uno dei passaggi più celebri del poema e fra le immagini più efficaci della letteratura mondiale. Siamo pochi anni dopo il 1300. Amore passionale e del piacer, come fra Paolo e Francesca, ma nondimeno quell’amore che non risparmia ad alcuno amato di ricambiare, amando a sua volta di vero sentimento. Si sia giovani amanti romagnoli oppure pastori campani alle prese con la transumanza.
Per Dante, si dice, una reminiscenza del pensiero di Andrea Cappellano, trovatore e religioso francese del XII-XIII secolo, che nel suo trattato De amore distingue, scandalosamente, l’amor cortese – libero e qualche volta libertino – l’amore coniugale e l’amore verso Dio. Fra le regole dell’amore del Cappellano, una recita: «Amor nihil posset amori denegare», l’amore non può rifiutare nulla all’amore.
Non è impossibile supporre che Alfonso Maria de’ Liguori fosse a conoscenza tanto dell’ambiente culturale toscano quanto di quello francese. Al pari degli altri giovani cavalieri napoletani di ricca famiglia, Alfonso studia in casa, nel palazzo al Borgo dei Vergini, a Napoli. Lezioni di filosofia, scienze e matematica, equitazione e scherma. Musica. Per le discipline umanistiche ci si affida a Domenico Buonaccia, sacerdote calabrese, rinomato precettore e professore di grammatica e poesia. Da lui Alfonso impara il latino e il greco, lo spagnolo – lingua dei dominatori e del loro viceré – così come il toscano e il francese, lingue della società civile e della cultura.
È un’ipotesi. Soltanto un’affascinante suggestione? Può essere. Che non contrae – ma anzi esalta – la capacità di Alfonso Maria de’ Liguori di attingere alle energie migliori della propria storia, della propria fede e del proprio tempo. L’amore, in senso buono, non perdona, anche – e forse soprattutto – per un Santo. «Cantanno po e sonanno li pasture», scrive Alfonso Maria de’ Liguori nella versione originale del suo canto, in napoletano – «Tornajeno a lle mantre nata vota: / ma che buò ca cchiù arrecietto / non trovajeno into a lu pietto: / a ‘o caro Bene / facevano ogne poco ‘o va e viene». Vale a dire: «Cantando poi e suonando i pastori / tornarono alle mandrie un’altra vota: / ma cosa vuoi? Non trovarono / più riposo nel petto: / al caro Bene / facevano ogni poco va e víeni». Il Bene li aveva ormai cambiati e spinti ad amarlo e ad amare, senza riposo. Anche questo è Natale.
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