Il green pass come la stella gialla e il cambiamento climatico come l’Olocausto. Di fronte alle questioni del nostro tempo, non si contano i riferimenti al dolore imposto agli ebrei, e non solo, dal nazifascismo. Evocati a sproposito, ma – sembra – anche una tentazione irresistibile, persino per i più avveduti.
Neppure il tempo di celebrare i morti, che sono i vivi a fare paura. Nel presente irrompe la storia, e non soltanto quella narrata dal cimitero militare francese a Monte Mario, il luogo scelto da papa Francesco per la celebrazione della Messa per i defunti del 2 novembre.
L’Olocausto “fa rumore”, desta impressione, genera (è l’auspicio) ancora turbamento. È un’immagine forte, un prototipo pressoché unico. Qualche volta – troppe volte – un escamotage comunicativo efficace. Il bicchiere mezzo pieno dice che decenni trascorsi a suonare la sveglia alla Memoria hanno ottenuto un risultato: sussiste finalmente una nuova, inedita consapevolezza di quanto accadde in Europa agli ebrei, e non solo, durante il secondo conflitto mondiale. È universalmente noto cosa fu la Shoah e il negazionismo è in netto declino.
L’altra metà del bicchiere, quella tristemente vuota di pensiero e di riflessione, dice del pericolo che all’Olocausto venga sottratto l’imprescindibile legame con la realtà, che venga svuotato della carne dei milioni di persone che hanno abitato, da vittime e da carnefici, quella pagina atroce della storia. C’è il rischio che l’Olocausto divenga solo un simbolo, fosse anche del male estremo, tale da prestarsi in qualche modo a sovrapposizioni fra quanto accaduto un tempo ed eventi o persone contemporanei, in nessun modo collegati. I grandi catalizzatori del nostro tempo, la pandemia e il cambiamento climatico, lo insegnano.
In principio fu il negazionismo, termine evocato con sorprendente leggerezza storica e lessicale per indicare l’atteggiamento di quanti, già lo scorso anno, negavano la pericolosità – se non l’esistenza stessa – della pandemia da SARS-CoV-2. A poco è valso finora l’invito delle comunità ebraiche ad evitare l’uso del termine, giudicato improprio e fuorviante. Il legame si è anzi rafforzato durante i mesi dell’emergenza sanitaria e recentemente si è arricchito, per così dire, di nuove retoriche malconce: l’obbligo di certificazione paragonato all’Olocausto, l’impossibilità ai non vaccinati di accedere ad alcuni luoghi pubblici equiparata alle imposizioni delle leggi razziali del 1938, i manifestanti contrari al vaccino che pretenderebbero di evocare i condannati ai campi di sterminio. Non c’è limite alla fantasia, e al peggio.
Perché fra i prodotti nefasti del Covid c’è anche l’inedita alleanza fra antisemitismo, complottismo e negazione della pandemia, dentro un Paese in cui una senatrice a vita, Liliana Segre, è costretta a muoversi sotto scorta. Perché i governi sono come il nazismo, i vaccini come i lager, ma i nemici restano, comunque, gli ebrei, in barba ad ogni seppure minima coerenza. Una dinamica che comunque – e non c’è da trarne consolazione – non caratterizza soltanto l’Italia.
E poi c’è il clima. «Olocausto ecologico» e «genocidio climatico» sono paragoni oggi all’ordine del giorno, ma gli accostamenti con le terribili vicende della seconda guerra mondiale non sono una novità. Era il 1989 quando sul New York Times l’allora 41enne Al Gore, già personaggio di spicco dell’ambientalismo statunitense, paragonava l’indifferenza verso il cambiamento climatico a quella per la Notte dei cristalli, l’ondata di pogrom antisemiti nella Germania del 1938. «Nel 1939, quando le nuvole della guerra si addensarono sull’Europa, molti si rifiutarono di riconoscere ciò che stava per accadere. Nessuno poteva immaginare un Olocausto, anche dopo la Notte dei cristalli. […] Nel 1989 nubi di diversa natura segnalano un olocausto ambientale senza precedenti. Ancora una volta, i leader mondiali esitano, sperando che il pericolo si dissipi. Eppure oggi l’evidenza è chiara come i suoni del vetro in frantumi a Berlino».
Parole di una sensibilità ormai lontana dal nostro tempo? Forse non così tanto. «Abbiamo a che fare con il Covid, il cambiamento climatico, si respira un clima da Guerra Fredda, da Olocausto imminente», ha detto pochi giorni fa Frank Miller, fumettista, sceneggiatore e regista statunitense, ospite alla Festa del Cinema di Roma. Parole di un personaggio sui generis, verrebbe da dire. Ma quando a scivolare sull’avventato paragone è nientemeno che l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, la situazione deve far riflettere. «Mi scuso inequivocabilmente per le parole che ho usato quando ho cercato di sottolineare la gravità della situazione che ci attende alla COP26», scrive Welby in un tweet. «Non è mai giusto fare paragoni con le atrocità commesse dai nazisti e mi dispiace per l’offesa che queste parole hanno causato agli ebrei». Che sia il clima a cambiare oppure le nostre vite a causa di un virus, la tastiera o uno slogan urlato in piazza possono diventare un vaccino potente contro la verità. E il buon senso.
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