Dopo aver fatto trascorrere una generazione disconoscendo il Dio fatto uomo, qual è il mondo che abbiamo partorito nella nostra libertà? Abbiamo bisogno di speranza come mai prima d’ora.
Un pontefice carico del peso della malattia, sorretto nel passo oltre la Porta Santa. Un pontefice sul quale l’età stringe la morsa, spinto su una sedia a rotelle oltre la soglia. Anche in queste immagini si consumano somiglianze e differenze fra gli ultimi due Giubilei ordinari. Venticinque anni sono un’epoca. Anzi, una generazione: perché più del mondo, a cambiare sono le persone.
Lo riflettono con efficacia le omelie pronunciate dai pontefici dopo l’apertura della Porta Santa. Certo, è alle bolle di indizione che è affidato il senso più compiuto del Giubileo, che sia «con lo sguardo fisso al mistero dell’incarnazione» come nel 2000 oppure nel segno di una «speranza che non delude» come oggi. Ma è nella notte di Natale che, seppur brevemente, si può cogliere il messaggio che i pontefici intendono rivolgere alla gran parte dei fedeli.
La speranza di un nuovo millennio, nonostante tutto
«È difficile non arrendersi all’eloquenza di quest’evento: rimaniamo incantati. Siamo testimoni dell’istante dell’amore che unisce l’eterno alla storia: l’oggi che apre il tempo del giubilo e della speranza», ricorda Giovanni Paolo II nella breve omelia della concelebrazione eucaristica della notte di Natale del 2000, dopo l’apertura della Porta Santa del Grande Giubileo. «Tra tanti figli di uomini, tra tanti bambini venuti al mondo durante questi secoli, soltanto Tu sei il Figlio di Dio: la tua nascita ha cambiato, in modo ineffabile, il corso degli eventi umani».
Si è, allora, alle soglie di un nuovo millennio, in procinto di lasciarsi alle spalle il secolo breve delle guerre mondiali, della rivoluzione sociale e tecnica. «Ecco la verità che in questa notte la Chiesa vuole trasmettere al terzo millennio. E voi tutti, che verrete dopo di noi, vogliate accogliere questa verità, che ha mutato totalmente la storia. Dalla notte di Betlemme, l’umanità è consapevole che Dio si è fatto Uomo: si è fatto Uomo per rendere l’uomo partecipe della sua natura divina».
A 25 anni di distanza, in noi che veniamo dopo, l’entusiasmo appartenuto a quegli «uomini e donne di fine millennio» nonostante le molte difficoltà di ogni tempo, sembra esaurito. Perfino l’immutabile verità è offuscata dalla disperazione di un clima globale asfissiante. «Se Dio viene, anche quando il nostro cuore somiglia a una povera mangiatoia, allora possiamo dire: la speranza non è morta, la speranza è viva, e avvolge la nostra vita per sempre! La speranza non delude», proclama papa Francesco al volgere del primo quarto di questo secolo. «Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi. Ma non dimenticatevi, sorelle e fratelli, che Dio perdona tutto, Dio perdona sempre. Non dimenticatevi questo, che è un modo di capire la speranza nel Signore».
La speranza come antidoto al peccato
Se l’omelia di Giovanni Paolo II ha, come nel suo stile, un forte connotato cristologico, quella di Francesco si distingue per un afflato sociale, ma tutt’altro che areligioso. Numerosi i riferimenti al peccato, individuale e collettivo. «Ai piedi del Verbo incarnato deponiamo gioie e apprensioni, lacrime e speranze», ricorda nel 2000 papa Wojtyła. Ma è Bergoglio ad enumerare le ferite che squarciano corpi, coscienze e società. Sono le «tante desolazioni in questo tempo! Pensiamo alle guerre, ai bambini mitragliati, alle bombe sulle scuole e sugli ospedali». Ma pure alla «terra, deturpata dalla logica del profitto», e ai «Paesi più poveri, gravati da debiti ingiusti».
È la «brancata di spine» dei nostri giorni, che papa Francesco ricorda citando don Alessandro Pronzato, autore fra l’altro dei libri donati a Fidel Castro durante il viaggio apostolico a Cuba del 2015. Un dolore che sembra, però, non ridestarci a sufficienza, rassegnati come siamo a «sostare nelle mediocrità», assuefatti all’«indolenza del sedentario e alla pigrizia di chi si è sistemato nelle proprie comodità», sedati dalla «falsa prudenza di chi non si sbilancia per paura di compromettersi e dal calcolo di chi pensa solo a sé stesso», sempre più incapaci di «alzare la voce contro il male e contro le ingiustizie consumate sulla pelle dei più poveri».
Dopo aver fatto trascorrere una generazione disconoscendo il Dio fatto uomo, qual è il mondo che abbiamo partorito nella nostra libertà? Il peso delle nostre scelte autolesioniste ci opprime. Abbondiamo di soluzioni, eppure abbiamo bisogno di speranza come mai prima d’ora. Negli ultimi ritrovati della tecnologia – dai droni delle guerre ibride alle intelligenze artificiali – abbiamo dimostrato ciò che davvero ci guida: il calcolo, presunto razionale, e non il cuore.
L’asprezza dei nostri giorni
Abitiamo un tempo in cui sempre più spesso «la vita è ferita, nelle attese tradite, nei sogni infranti, nei fallimenti che frantumano il cuore; nella stanchezza di chi non ce la fa più, nella solitudine amara di chi si sente sconfitto, nella sofferenza che scava l’anima; nei giorni lunghi e vuoti dei carcerati, nelle stanze strette e fredde dei poveri, nei luoghi profanati dalla guerra e dalla violenza». L’asprezza dell’apertura di questo Giubileo è quella di giorni impantanati negli acquitrini dell’orrore ordinario, impaludati delle immondizie spacciate per prosperità.
Ma un Bambino appare nell’ora più misera e arrogante della nostra notte. Come pellegrini che non trovano il proprio alloggio, bussiamo con tutta la nostra tenacia per ottenere che ci venga nuovamente aperta una porta di speranza; spingiamo con ogni forza per cogliere l’opportunità di quei battenti appena dischiusi. Sperare dentro questo mondo è un mistero. Sperare dentro questo mondo è nel Mistero.
Foto: LaPresse.
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