Due vescovi, due dimissioni. Incomparabili, ma con un tratto in comune. In una gerarchia ecclesiastica che qualche volta sembra affannarsi fra cariche e incarichi.
Con le consuete espressioni ad effetto, si parla di “annuncio choc”. Nessun problema di salute noto, nessuno scandalo in vista, solo due anni all’età del “pensionamento”, salvo proroghe concesse dal Papa. Ma il diretto interessato, mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, parla delle proprie dimissioni – presentate a papa Francesco lo scorso 13 ottobre, ma rese note solo ieri – come di una «scelta difficile, sofferta ma profondamente libera, ispirata al servizio della Chiesa e non per interessi personali». Una comunicazione semplice, registrata alla buona in un video (a sua volta al centro di un piccolo “giallo”), per un uomo di Chiesa che nel proprio servizio pastorale ha sempre concesso ampio spazio ai media: iscritto all’ordine dei giornalisti, nel 1987 vicedirettore della Sala stampa della Santa Sede, collaboratore dell’emittente televisiva Telepace e di Radio Maria e curatore di diverse trasmissioni di approfondimento (celebre, su Rai 2, la rubrica Sulla via di Damasco). Ma noto anche per le sue prese di posizione decise, nel denunciare ritardi e abusi nella ricostruzione dopo il terremoto del 2016, così come alcune derive apparentemente punitive verso la comunità cristiana delineatesi durante il confinamento imposto la scorsa primavera dalla pandemia di Covid-19.
«In un momento difficile come questo, in cui regna confusione, nella società c’è tanta paura e sento profondamente il bisogno di dedicarmi alla preghiera», spiega ora mons. D’Ercole. Una scelta di silenzio, ma a suo modo un atto rivoluzionario. «Entro in un monastero, dove potrò accompagnare il cammino della Chiesa in un modo più intenso nella meditazione, nella contemplazione e silenzio. Quando avrò percorso questo periodo nel monastero mi aprirò a tutte le prospettive. Sento che Dio mi chiama fare un passo perché possa rendere servizio in questo modo». Un ritorno «alle origini» del suo sacerdozio, «in Africa, tra i più poveri tra i poveri».
Un ritiro che, però, non vuole dare l’impressione di una ritirata. «Non abbandono nessuno, ma sarò ancora più vicino alla Diocesi a ciascuno di voi con la mia preghiera. Sento che solo Dio può essere la speranza affidabile su cui poggiare ogni nostro passo verso il futuro che pare incerto, ma che sarà segnato dalla luce di Dio». Parole che ricordano quelle pronunciate da Benedetto XVI nella sua ultima udienza generale, l’ormai lontano 27 febbraio 2013: «Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro».
Il ritorno ad una nuova vita, che richiede di «lasciare ogni organizzazione amministrativa della diocesi concentrandomi sulla preghiera», secondo le parole di mons. Vincenzo Guo Xijin. Dimissioni diverse, le sue, incomparabili, e dai tratti decisamente più polemici. «Io sono una persona che non ha nessun talento, la mia testa è ormai obsoleta», «Mi sento quasi incapace», «Non ho la capacità e né sono degno», «Il vostro incompetente pastore»: così mons. Vincenzo Guo Xijin ha spiegato durante la sua ultima Messa pubblica, il 4 ottobre scorso, la decisione di dimettersi da tutte le cariche per ritirarsi a una vita nascosta e di preghiera. Autocritica secondo lo stile in voga nella Cina comunista, che segna la dirompente conclusione di una vicenda lunga anni, che ha vissuto un momento di svolta con la firma, nel 2018, dell’Accordo Provvisorio tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, recentemente rinnovato per altri due anni.
Erede di mons. Giacomo Xie Shiguang, il vescovo della Chiesa sotterranea cinese deceduto nel 2005 senza essere mai sceso a compromessi con il regime comunista di Pechino, mons. Vincenzo Guo Xijin è stato il vescovo ordinario (clandestino) degli oltre 70 mila cattolici della diocesi di Mindong, nella Cina sud-orientale, fino al dicembre 2018. In seguito agli accordi fra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, aveva allora acconsentito ad essere “retrocesso” a vescovo ausiliare e a cedere il proprio posto a mons. Vincenzo Zhan Silu, riconosciuto dal governo cinese, uno dei sette vescovi ex scomunicati che papa Francesco ha riaccettato nella comunione.
Mai adeguatosi alle imposizioni del regime di Pechino e già in passato costretto alla prigionia, nel gennaio scorso mons. Guo era stato colpito da un provvedimento di sfratto dalla Curia, ufficialmente per motivi di sicurezza. Nel dicembre scorso l’ultimo atto, con un pubblico mea culpa di chiara denuncia, che ha fatto il giro del mondo. «Tutto questo è forse il segno di una nuova epoca, una pagina nuova per la Chiesa», aveva sottolineato mons. Guo nell’omelia di congedo dalla vita pubblica (qui il testo integrale). Che è anche un testamento spirituale: «Miei fedeli, dovete ricordarvi che la vostra fede è in Dio e non in uomo. L’uomo è soggetto ai cambiamenti, ma Dio no». Che rimane una certezza, in un tempo apparentemente dominato dall’incertezza.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.
L’ennesima vittima della misericordia e del ‘dialogo’ di papa Francesco, che predica bene e razzola malissimo specialmente con i cristiani e quelli che non.la pensano come lui, fino a portarli, esasperati, a questi gesti. Ma dico anche a mons. D’Ercole che lascia il gregge in un momento in cui questo ha bisogno di guide secondo Dio, e lui lo è, lasciandolo in balia dei lupi. Perché sicuramente adesso sarà nominato uno filo Bergoglio.
Certo è ben brutta immagine una Chiesa “contro” e “filo”. Non dico irreale, ma ben brutta.
Sono addolorato che il vescovo Xijin dopo aver ceduto il posto imposto dal papa ad altro vescovo riconosciuto dal Regime Cinese sia stato costretto a lasciare anche la sua Comunità di fedeli che Lo amano! È una condanna a morte!