Francesco e la nuova lettera sulle migrazioni

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Nella nuova lettera della Commissione episcopale per le migrazioni della Cei, Comunità accoglienti. Uscire dalla paura, Francesco è citato otto volte, più di ogni altro pontefice precedente (Benedetto XVI è presente due volte e Giovanni Paolo II una), a conferma del legame – reale, ma ancor più percepito – fra il pontificato in corso e il tema delle migrazioni.

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Un’identificazione iniziata a Lampedusa l’8 luglio 2013, in occasione della prima visita ufficiale dell’allora nuovo pontefice fuori dalla diocesi di Roma, rievocata nella lettera della CEMi attraverso il richiamo di Francesco: “Dov’è tuo fratello?”. «Oggi nessuno nel mondo – disse allora, fra le altre cose, il Pontefice – si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna».

Responsabilità, anche verso i migranti, che è anzitutto pastorale e in obbedienza alla quale «tutti i credenti e gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a rispondere alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee con generosità, alacrità, saggezza e lungimiranza, ciascuno secondo le proprie responsabilità», secondo le parole scelte da Francesco per il Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018.

«Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza», si precisa nella lettera della Commissione Cei. Apparentemente un paradosso per delle comunità “accoglienti” per definizione, sollevato – in continuità con Giovanni XXIII – anche da Francesco. In realtà una posizione di buonsenso, secondo la quale l’accoglienza vive i «limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso», come sottolineato dal Pontefice nel Messaggio per la 51.ma Giornata mondiale della pace 2018. Ancora più concretamente, sul volo di ritorno dal viaggio apostolico in Colombia del settembre scorso, Francesco spiegava che «un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma anche integrarli».

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Integrazione, una delle parole ricorrenti di questo pontificato. Ad essa – insieme ad accogliere, proteggere e promuovere – è dedicato il Messaggio di Francesco per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018. Un concetto forse abusato, certamente da chiarire, perché da intendersi «come processo bidirezionale che riconosce e valorizza la ricchezza della cultura dell’altro», secondo quanto precisato dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.

Non è un caso, allora, che la lettera della CEMi intenda andare oltre. All’integrazione, infatti, è preferita l’interazione, nella consapevolezza che «la presenza di tanti fratelli e sorelle che vivono la tragedia dell’immigrazione è un’opportunità di crescita umana, di incontro e di dialogo tra le culture, in vista della promozione della pace e della fraternità tra i popoli». Anche per questo è necessario «privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società», come auspicato da Francesco nella Evangelii gaudium, in grado di «studiare i “segni dei tempi”» e di mettere in campo «buone soluzioni» che possano contribuire ad arrestare «processi di disumanizzazione da cui poi è difficile tornare indietro».

Un impegno concretamente raccolto dalle centinaia di realtà – famiglie, comunità religiose e parrocchie – che da tre anni a questa parte hanno risposto in modi diversi all’appello di Francesco del settembre 2015. Ad esse il prossimo anno sarà dedicato un meeting, secondo quanto anticipato dalla lettera della CEMi. Un modo per incontrarsi e raccontarsi, per coinvolgere altri possibili protagonisti finora rimasti ai margini, ma anche per uscire da una percezione di interminabile “appello” per un’accoglienza che è invece da tempo realtà e continua a dare i suoi frutti. Primo fra tutti, fare da contraltare a «quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici».

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Paure, comunque, che nell’opinione pubblica non sono da condannare a priori, bensì da accogliere, comprendere e infine superare. «Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto», ha chiarito Francesco nell’omelia della Messa celebrata in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato dello scorso gennaio. Un concetto sul quale il Papa è tornato pochi giorni fa, durante l’incontro con la diocesi di Roma. «Parlando di peccati, di difetti, di malattie – ha spiegato Francesco – c’è sempre bisogno di arrivare alla radice. Perché diversamente le malattie rimangono e ritornano». Anche quelle ideologiche.

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