C’è una vergogna che porta al peccato e c’è una vergogna che porta gloria e grazia, sta scritto nel Siracide (4,21). Lo ha sperimentato nel modo più doloroso la Chiesa, da decenni alle prese con le tragedie di pedofilia ed efebofilia, criminale sofferenza inflitta da membri della Chiesa a membra della stessa Chiesa, le più fragili e indifese. Una condotta cannibale – Chiesa che distrugge altra Chiesa – piaga che negli ultimi anni sta suppurando il dolore troppo a lungo celato, affrontandone le conseguenze.
Ultimo atto, pochi giorni fa, la pubblicazione del rapporto della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa in Francia, che riferisce di 216 mila aggressione sessuali a minori dal 1950 al 2020, la maggior parte delle quali avvenuta nei primi vent’anni del cinquantennio. «Desidero esprimere alle vittime la mia tristezza e il mio dolore per i traumi che hanno subito e la mia vergogna, la nostra vergogna, la mia vergogna, per la troppo lunga incapacità della Chiesa di metterle al centro delle sue preoccupazioni, assicurando loro la mia preghiera», ha detto papa Francesco commentando i dati contenuti nel rapporto. «E prego e preghiamo insieme tutti: “A te Signore la gloria, a noi la vergogna”: questo è il momento della vergogna», ha aggiunto il Pontefice.
Non è la prima volta. «Allora sentiremo quella vergogna guaritrice che apre le porte alla compassione e alla tenerezza del Signore che ci è sempre vicino. Come Chiesa dobbiamo chiedere la grazia della vergogna», ha scritto papa Francesco al card. Reinhard Marx, dimissionario – respinto – per l’incapacità di reagire ad un fallimento percepito come personale e «di sistema» e di rinvenire strumenti e soluzioni agli abusi sui minori e alle altre crisi della Chiesa in Germania. Alla fine, per volere di papa Francesco, «vergogna» fu ma non dimissioni, perché «la politica dello struzzo non porta a niente, e la crisi deve essere accettata a partire dalla nostra fede pasquale. I sociologismi, gli psicologismi, non servono».
Molte volte, nel corso del suo pontificato, Francesco ha chiamato in causa la vergüenza, la salutare vergogna, anche in tempi – per così dire – non sospetti. C’è la vergogna della guerra, la «vergogna che gli umani, i nostri fratelli, siano capaci di fare questo». Ma anche la «benedetta vergogna», come l’ha definita il Papa nell’aprile 2013, a poche settimane dall’elezione, in una delle celebri meditazioni mattutine da Santa Marta. «Il problema non è essere peccatori», bensì «non pentirsi del peccato, non avere vergogna di quello che abbiamo fatto. Quello è il problema», ha aggiunto Francesco in seguito. Pochi mesi, e nell’ottobre dello stesso anno il Papa è tornato sull’argomento, dedicando un’intera meditazione alla salutare capacità di vergognarsi. «Sempre sentiamo quella grazia della vergogna. Vergognarsi davanti a Dio è una grazia».
Una grazia strettamente connessa alla misericordia, da imparare da Dio. Una strada «non facile», ha ricordato papa Francesco nel 2015, che «incomincia con l’accusa di se stesso, incomincia da quella vergogna davanti a Dio e da quel chiedere perdono a lui: chiedere misericordia». Proprio «da quel primo passo si arriva a questo che il Signore ci chiede: essere misericordiosi, non giudicare nessuno, non condannare nessuno, essere generosi con gli altri». Si tratta di un atteggiamento personale, ma che deve essere fatto diventare anche un modo di intendere e di incarnare un sistema, tanto più se ecclesiale. «Una persona che ha perso la vergogna perde l’autorità morale, perde il rispetto degli altri», ha chiarito papa Francesco lo scorso anno.
Vergogna non è un atteggiamento passivo, una comoda via d’uscita di fronte a questioni da lasciare irrisolte e alle quali sottrarsi, né tantomeno un punto di vista occludente, che impedisce di vedere il tanto grano mescolato alla zizzania. «Il nostro dolore e la nostra vergogna per i peccati di alcuni membri della Chiesa, e per i propri, non devono far dimenticare quanti cristiani danno la vita per amore», ha puntualizzato Francesco nella Evangelii gaudium (n. 76), l’esortazione apostolica su quella “gioia del Vangelo” che nessun peccato dell’uomo, per quanto grave, può oscurare.
Di vergogna, a suo tempo ha parlato anche Benedetto XVI. «Noi tutti siamo consapevoli del male derivato dalla nostra patria nel Novecento, e lo riconosciamo con vergogna e dolore», ha detto l’attuale Pontefice Emerito nel 2005, congedandosi dalla sua Germania dopo il viaggio apostolico in occasione della Giornata mondiale della gioventù. Ma la vergogna per gli orrori della seconda guerra mondiale non è l’unica a bruciare. «Profondamente commosso, Benedetto XVI ha espresso la propria vergogna e il proprio dolore per quanto le vittime e le loro famiglie hanno sofferto» e «le ha assicurate del fatto che la Chiesa sta facendo, e continuerà a fare, tutto ciò che è in suo potere per indagare sulle accuse, per assicurare alla giustizia i responsabili degli abusi e per mettere in pratica misure efficaci volte a tutelare i giovani in futuro», si può leggere nel comunicato ufficiale diffuso dopo l’incontro di Benedetto XVI con alcune vittime di abusi, nell’aprile 2010.
Non è un caso che la parola vergogna compaia per ben tre volte nell’articolo scritto lo stesso anno dall’arcivescovo di Westminster e primate d’Inghilterra e Galles, Vincent Nichols, sul tema Contro gli abusi sui minori nessuno ha fatto quanto Benedetto XVI, in seguito pubblicato anche sul Times. «Questa vergogna e questa rabbia sono incentrate sul danno provocato a ogni singolo bambino abusato», ha scritto allora Nichols. «Oggi, non per la prima volta, esprimo la mia vergogna e il mio dolore senza riserve per quanto è accaduto a molti nella Chiesa. La mia vergogna, come la rabbia di tanti, è resa più profonda da giudizi errati nell’ambito della Chiesa».
Dal canto suo, Giovanni Paolo II a più riprese durante il suo lungo pontificato ha posto in «rilievo il carattere davvero metafisico della vergogna». Applicando la riflessione morale di papa Wojtyla al contesto attuale se ne coglie la grande attualità. «Il peccato ha portato con sé la vergogna, la necessità di nascondersi, di velarsi, per così dire, davanti agli occhi di Dio. […] È subentrata la paura davanti all’altro uomo, è iniziata l’estraneità, l’ostilità». Anche verso la Chiesa. La verità, perché renda liberi, va affrontata. Tutto il resto – insabbiamenti, giustificazioni, sociologismi, inutili strappi – non può che perpetuare la schiavitù.
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Quello della perdita della vergogna è una delle più truci esperienze dei nostri giorni, un vizio che non è più appannaggio dei vincitori, ma di tutti. Il vincitore ha sempre ragione prescindendo da ogni considerazione morale sui mezzi, le forme e il merito stesso della vittoria E il vinto non si vergogna di aggregarsi alla folla dei vincitori spesso senza pudore. E’ una sorta di legge nella politica, nella professione, nella vita sociale…Quante affermazioni dette alla televisione sono esempio di spudoratezza!
Grazie per la tua riflessione, Edoardo.