Sono il simbolo del lavoro operoso e disinteressato, e la loro scomparsa è un segno della crisi (non solo ambientale) del nostro tempo. Si tratta delle api, un’immagine cara al cristianesimo. Anche anticattolico.
Dimenticatevi Albert Einstein. “Se le api scomparissero, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita”. Il vaticinio apocalittico, attribuito al celebre scienziato e che ha trovato nuova vita in rete, sarebbe decisamente meno solido della formula della relatività. Almeno stando a quanto scrive il Dipartimento di Medicina veterinaria dell’Università Federico II di Napoli, secondo cui l’affermazione sarebbe piuttosto da ricondurre ad un volantino distribuito a Bruxelles dall’Unione nazionale apicoltori francesi nel 1994 per manifestare alle autorità europee lo stato di difficoltà dell’apicoltura. Tanto più che anche altri insetti, come vespe, mosche, farfalle, coccinelle, ragni, coleotteri, e perfino uccelli e mammiferi sarebbero in grado di svolgere un lavoro di impollinazione, garantendo almeno in parte la salvaguardia delle piante anche in caso di estinzione delle api.
Insieme alla scienza, il buon senso
Un’eventualità nulla affatto remota, né indifferente, se si guarda al drammatico calo della popolazione di api nel mondo: secondo i dati diffusi dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) si evidenzia un aumento dal 5-10% al 25-40% delle morti invernali delle api e crescenti morie nel periodo primavera-estate. In particolare, il 9,2% delle specie di api europee è a rischio di estinzione.
Un esito gravissimo, sia in termini di biodiversità che nutrizionali, se si considera che le api domestiche e selvatiche sono coinvolte nel 70% dell’impollinazione di tutte le specie vegetali viventi sul pianeta e garantiscono il 35% della produzione mondiale di cibo. Non a caso sono numerose le campagne di sensibilizzazione in atto, dalla Giornata mondiale delle api istituita nel 2017 dalle Nazioni Unite (20 maggio) alla raccolta firme promossa da Greenpeace.
Sante api
Come si diceva, dimenticatevi Albert Einstein. E pensate, piuttosto, ad Agostino d’Ippona e sant’Ambrogio. Api e cristianesimo? Decisamente sì. Al primo – così come ad altri – si deve il riferimento alle api come modello di castità e verginità feconda; al secondo la leggenda agiografica narra sia uscito dalla bocca uno sciame di api mentre era ancora in fasce, senza fargli alcun male: segno di un futuro di eccezionale oratoria, insieme instancabile, dolce e pungente.
La Chiesa e l’ape mellifera hanno una lunga storia comune. Nella Bibbia sono numerosi i riferimenti alle api e i primi cristiani avevano una tale ammirazione per questo animale da prenderlo ad esempio per la propria vita spirituale, tanto da considerare santi alcuni suoi prodotti, su tutti il miele e la cera. Qualcuno ha detto candele? Basti dire che nell’Exsultet, un canto liturgico che accompagna la solenne Veglia pasquale, per ben due volte si fa riferimento alle api – e alla apis mater, l’ape madre – che producono la cera con la quale è realizzato il cero pasquale e che ne alimenta la fiamma.
Non si contano, poi, le api che compaiono nell’arte e nell’architettura cristiane, su tutte quelle dei Barberini, simbolo della potente famiglia che ha dato i natali a papa Urbano VIII. Per non parlare dei “monumenti” della scrittura. È il caso del domenicano Tommaso di Cantimpré, scrittore e teologo fiammingo, che nel XIII secolo scrive un trattato di teologia pratica e morale per frati e religiose – il Bonum universale de apibus – ispirandosi alla vita di una comunità di api. Di grande fascino è l’immagine secondo cui «sia l’unità che la purezza verginale delle api dovrebbero servire da esempio ai frati: la sera dovrebbe calare la quiete sul convento, come sull’alveare».
L’alveare (corrotto) di Roma
Ma le api non sono certo materia buona soltanto per quello che un tempo era detto il “basso clero”. Non senza malizia, in ambienti protestanti nordeuropei la Chiesa cattolica è rappresentata come un grande sciame di api affaccendato tra incensi, cerimonie e traffici per la sola edificazione del potere e della ricchezza del romano pontefice. Ne sono un esempio efficace le decine di edizioni del De roomsche byen-korf (L’alveare romano), opera satirica del fiammingo Filips van Marnix, signore di Saint-Aldegonde, pubblicata per la prima volta nel 1569.
I disegni che illustrano le edizioni sono un compendio dell’antipapismo in chiave apiaria. L’alveare ha la forma della tiara pontificia, ornata con tanto di chiavi di san Pietro, sormontata però da una singolare mezzaluna araba. Davanti all’alveare fa bella mostra di sé l’ape-papa, verso la quale convergono le api-chierici. Cardinali e vescovi (riconoscibili dai loro copricapi), sacerdoti e monaci popolano a diversi livelli l’alveare. Non può mancare, naturalmente, la produzione di miele, ottenuto grazie alla vendita delle indulgenze (a destra), bersaglio principale delle Tesi di Lutero, al traffico di reliquie (in alto a destra) e alle liturgie (a sinistra). Quanto più cardinali e vescovi sono vicini all’ape-re, tanto più appaiono rubicondi, mentre il resto del gregge – pardon, dello sciame – è costretto ad arrangiarsi come può.
Api e farfalle al tempo di Pio XII
Non che le api si prestino così docilmente ad essere strumento della sola polemica anticattolica. «Le api non sono state forse unanimemente cantate dalla poesia, non meno sacra che profana, di tutti i tempi?», ricorda nel 1947 papa Pio XII in un discorso ai partecipanti al Congresso nazionale italiano di apicoltura. «Queste api, mosse e dirette dall’istinto, vestigio e testimonianza visibile della sapienza invisibile del Creatore, quali lezioni danno agli uomini, che sono – o dovrebbero essere – guidati dalla ragione, vivo riflesso dell’intelletto divino! Esempio di vita e di attività sociale, in cui ciascuna categoria ha il suo ufficio da adempiere, e lo adempie esattamente – si sarebbe quasi tentati di dire: coscientemente –, senza invidia, senza rivalità, nell’ordine, nel posto ad ognuna assegnato, con cura ed amore».
Curiosamente, nella parole del Papa c’è una vera e propria “classificazione morale” degli impollinatori. L’ape è allora «ben differente dalla farfalla, che volteggia di fiore in fiore per puro sollazzo, dalla vespa e dal calabrone, aggressori brutali, che sembrano non voler far altro che il male, senza vantaggio di alcuno». Un punto di vista che trova poche conferme all’esame della natura, ma che ben rappresenta molte delle storture delle società (umane) moderne.
Certo, le api incarnano una visione della società che oggi sarebbe probabilmente giudicata troppo verticistica, ma a suo modo l’alveare è un riflesso dell’opera creatrice di Dio. «Vi invitiamo, cari figli, a vedere il Signore all’opera nell’alveare, davanti al quale vi stupite», sottolinea Pio XII una decina di anni più tardi, in occasione del XVII Congresso internazionale degli apicoltori. «Adoratelo, dunque, e lodatelo per questo riflesso della Sua sapienza divina; lodatelo per la cera che arde sugli altari, simbolo delle anime che vogliono bruciare e consumarsi per Lui; lodatelo per il miele, che è dolce, ma non quanto le Sue parole».
Miele e pungiglioni
Più recentemente, Benedetto XVI ha rievocato l’immagine delle api e dei fiori cara a Basilio di Cesarea: esse traggono dai fiori solo quanto serve a produrre miele e tralasciano il resto. «Così – ricorda in una catechesi papa Ratzinger nel 2007 – con atteggiamento critico e aperto – si tratta infatti di un vero e proprio “discernimento” – i giovani crescono nella libertà».
Insomma, per dirla con il libro dei Proverbi, «favo di miele sono le parole gentili, dolcezza per l’anima e refrigerio per il corpo». Buon ritorno al lavoro e agli studi. Con la speranza di produrre più miele e meno pungiglioni, se il tempo – non solo per il clima – lo permette.
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