Era il dicembre 2010 quando l’Occidente acclamava alla serie di sommovimenti esplosi in vari Paesi a maggioranza islamica di area nordafricana e mediorientale. Dopo quasi quattro anni cadono le foglie su quella Primavera araba.
Tolto il velo dell’imbarazzato silenzio che ha dominato per mesi, in queste ultime settimane l’Isis ha monopolizzato l’attenzione rivolta dall’Occidente all’area mediorientale. La sanguinarietà dei jihadisti, le loro accorte politiche di marketing, il riaccendersi di fronti caldi in area nordafricana riconducibili ad ambienti dell’autoproclamato Califfato, hanno fatto scivolare in secondo piano l’analisi di aspetti più complessi – e a tratti più significativi – del conflitto attualmente in corso.
Solo modesta attenzione ha suscitato ad esempio il violento riemergere di una conflittualità fra parti del mondo sunnita e sciita, storicamente carsica, e il riaffacciarsi di vecchi, nuovi protagonisti sulla scena dell’area, come il popolo curdo. Accanto alla scoperta dell’esistenza di un Medio Oriente tutt’altro che monoliticamente arabo e islamico – come invece taluni vorrebbero, anche e soprattutto in Occidente – si è comunque assistito al ritorno della cortina di omologazione da tempo calata sull’intera area mediorientale e nordafricana, teatro di quella che fu detta Primavera araba.
Tunisina d’origine e mediorientale d’adozione, dunque soltanto in un secondo momento propriamente araba, alla luce delle recenti tragedie questa concatenazione di eventi e speranze, che infiammò le terre dal Nord Africa alla Penisola araba ed eccitò gli animi di buona parte del mondo, appare lontana di decenni, così come l’opportunità di una pacifica instaurazione di regimi politici stabili, tanto più laddove il presunto processo di transizione democratica appare lungi dall’essere all’insegna della trasparenza.
Da questo punto di vista si assiste, di contro, al riacutizzarsi di conflittualità di lunga data, soltanto temporaneamente sopite sotto governi più o meno dittatoriali, destituiti da insurrezioni popolari e para-popolari, interessi stranieri e maldestri interventi militari occidentali. È questo il caso della rinnovata contrapposizione fra islamici e secolaristi, più evidente in alcune società nordafricane, come quelle tunisina ed egiziana, oppure lo scontro fra appartenenti a diversi orientamenti islamici, primi fra tutti sciiti e sunniti.
Il ritorno di un esacerbato clima religioso appare uno dei prodotti della diffusa instabilità politica, unita ad una generalizzata incertezza sociale ed economica, alla quale la Primavera araba non ha saputo fornire soluzioni convincenti. Una contrapposizione sfociata in violenza interna allo stesso mondo islamico, nonché verso le minoranze religiose, soprattutto cristiane, che con l’Isis ha toccato dimensioni ed interessi internazionali, intercettando la tardiva attenzione europea e nordamericana. L’ampliamento e la radicalizzazione del divario fra i due rami principali dell’islam potrebbe costituire per i prossimi anni uno degli elementi da tenere in maggior conto nelle considerazioni sul mondo islamico.
A poter trarre vantaggio dai rivolgimenti in atto in Medio Oriente potrebbe essere anche un vecchio attore dell’area, per anni condannato ad un ruolo di secondo piano: il popolo curdo. Nelle ultime settimane i Curdi sono assurti agli eroici clamori mediatici, eguagliando i mujaheddin afgani dei primi anni Duemila in quanto a fama e a trattazioni romanzate da parte dei media, come ha recentemente dimostrato la strenua resistenza della città di Cobanê (Ayn al-Arab), già assurta internazionalmente a “Stalingrado curda”.
Pur avendo apparentemente rinunciato ad un’indipendenza propriamente intesa per una più moderata autonomia di fatto, il popolo curdo potrebbe in realtà non essere lontano dal conseguire anche politicamente l’obiettivo tanto atteso. Nonostante sia attestata la presenza di Curdi anche in Turchia, Siria ed Iran, il Curdistan, territorio nel quale sono stanziati in maggioranza, nel nord dell’Iraq, da anni sta sviluppando un’economia propria, sempre più autonoma nella generale disgregazione dell’Iraq come Stato unitario, e si è formalmente dotato di una bandiera, di un inno nazionale e di un esercito, messo alla prova in questi giorni, anche mediaticamente. Entro i suoi confini, per ora invisibili, il Curdistan può altresì contare sulla presenza di petrolio, per tradizione merce di scambio convincente sullo scacchiere geopolitico internazionale.
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