Basta un ufficio perché la fede prosperi? Trump, Paula White e la “teologia della prosperità”.
«Credo che la prosperità abbia uno scopo». Si tratta, probabilmente, di uno dei passaggi più efficaci per sintetizzare il pensiero di Paula White sulla ricchezza. Un approccio articolato il suo, a tratti fumoso e spesso contraddittorio, che spazia dalle Scritture ad un mental coaching di tendenza. Qualcosa del tipo: «Il vostro futuro si trova nella vostra routine quotidiana. Le persone di successo fanno quotidianamente ciò che gli altri fanno occasionalmente».
Una fede d’ufficio
Che Donald Trump abbia scelto una predicatrice televisiva e leader di un movimento religioso come Paula White per guidare il nuovo Ufficio per la fede vuol certo dire qualcosa. Anzi: che il presidente degli Stati Uniti abbia pensato di creare un Ufficio per la fede vuol dire qualcosa. Anche troppo. Che lo scopo sia «riportare la religione» negli Stati Uniti oppure vigilare sui «pregiudizi anticristiani» nel Paese – entrambi obiettivi dichiarati negli scorsi giorni – il nuovo Ufficio mira ad alimentare quell’aureola di santità al neon accesa dietro al capo di Trump e sulla quale si fonda parte del suo consenso. «Come dice la Bibbia, “Beati gli operatori di pace”. E a tal fine, spero che la mia più grande eredità, quando tutto sarà finito, sarà quella di un pacificatore e unificatore», scrive Trump sull’ex Uccellino blu.
È il Vangelo secondo X, garantito tanto dal capitale tecnologico di Elon Musk quanto dall’appeal trascendente della White. Una che nel 2019, già lanciata nella campagna elettorale insieme all’attuale presidente, dà mostra di saperci fare. «Quando cammino nella Casa Bianca, Dio cammina nella Casa Bianca. Ho tutto il diritto e l’autorità di dichiarare la Casa Bianca come terreno santo perché il luogo in cui mi trovo è santo». Lettura estrema del Dio-con-noi o immane sciocchezza? Poco importa, in fondo: Paula White si muove con grazia in questa fede senza grazia, dominando il palcoscenico con il dono pseudo-spirituale delle lingue e una capacità ben più concreta di raccogliere fondi.
Teologia della prosperità
La chiamano “teologia della prosperità”, ma non è ben chiaro a chi la porti. Sostengono che Paula White ne sia l’araldo, eppure lei stessa sostiene di non crederci. Versione breve di una teologia inutilmente complessa: la ricchezza è una benedizione che Dio concede ai suoi prescelti. E ci vuole poca immaginazione per figurarsi il destino (e le colpe) degli altri. Una vecchia storia, che da secoli riguarda una parte della tradizione ebraica e delle Chiese evangeliche, soprattutto in Nord Europa e Oltreoceano.
Oggi, la “teologia della prosperità” sembra anzitutto l’alibi che ci voleva per giustificare un potere sempre più lobbistico e oligarchico, allontanare più persone in difficoltà possibile dagli Stati Uniti e, forse, dare una sforbiciata al welfare. Dio lo vuole. Con buona pace dei cosiddetti paycheck-to-paycheck, quelli che vivono “di stipendio in stipendio”, che stando ad alcuni analisti avrebbero contribuito in maniera sostanziale alla vittoria di Trump. Che finiscano con il sentirsi malvisti anche dall’Alto?
La ricchezza economica, comunque, non è che uno dei temi al centro della riflessione pseudo-religiosa del culto – anzitutto della personalità – di Donald Trump. Hanno un proprio ruolo aborto e gender. Per non parlare della difesa d’ufficio dei cattolici “perseguitati” dall’amministrazione Biden (pessima anche sotto questo punto di vista, senza dubbio).
Tutto giusto, almeno sulla carta, e tutti temi d’attualità, anche nell’agenda di molte confessioni religiose. Ma temi che sono anche, e innanzitutto, in grado di garantire all’uomo politico (e alla donna) un’ottima visibilità mediatica e una buona copertura ideologica, che sia fra i cosiddetti tradizionalisti oppure fra i progressisti. E poco importa se le posizioni ondivaghe della ragion di stato provocano il mal di mare, e qualche nausea.
È il frutto indigesto di ogni defensor fidei che i popoli si sono inflitti nei momenti di debolezza. Il prezzo dell’uomo-forte, salvatore della fede oltre che della patria. In anni recenti, una parte del mondo – anche in Occidente – ci è passata con Vladimir Putin. Ora in Paula White, Trump ha trovato il proprio Kirill. Neppure serve che sia un patriarca: è sufficiente che sappia dare l’illusione di poter vincere la guerra. Anche laddove si tratti di tracciare una via d’uscita dalla crisi, esistenziale e antropologica prima che globale. «Sono stato salvato da Dio per rendere l’America di nuovo grande». Parola di Donald.
Stati Uniti, modello singolare
La storia ha già dimostrato che ogni tresca fra religione e politica non può che generare pargoli raccapriccianti. Si dirà: gli Stati Uniti sono da sempre, anche sotto questo punto di vista, un caso peculiare. A Paula White non serve certo la glossolalia per parlare il linguaggio di milioni di elettori statunitensi. Per la gran parte degli italiani, la sua è invece una retorica incomprensibile, almeno per il momento. Una comunicazione sempre più pervasiva e globalizzata sta infatti cambiando rapidamente le carte in tavola. Anche al di qua dell’Atlantico, in futuro, un rosario esibito in piazza potrebbe essere il lontano ricordo di un primo, maldestro passo.
Appaltare la difesa della religione alla politica vale il miraggio di una benedizione per l’identità culturale e i valori della nazione? A chi sarà chiesto di pagare il prezzo di una fede resa strumento del supporto popolare e giustificazione di scelte politiche altrimenti ingiustificabili? Robert Hugh Benson ha scritto più d’una pagina su questo genere di padroni del mondo. E anche sul loro destino.
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