«Si risponde: Negativamente». Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare. C’è tutta la libertà di Dio in questo passo dell’Inferno di Dante: Egli può ciò che vuole. Che siano le leggi dell’universo o far attraversare ad un fiorentino l’inferno da vivo. Non così la Chiesa, che al proprio Signore è per natura assoggettata, si auspica felicemente.
In questi giorni a far discutere è la presa di posizione espressa ufficialmente dalla Congregazione per la dottrina della fede in merito alla benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso. «Non è lecito impartire una benedizione a relazioni, o a partenariati anche stabili, che implicano una prassi sessuale fuori dal matrimonio (vale a dire, fuori dell’unione indissolubile di un uomo e una donna aperta di per sé alla trasmissione della vita), come è il caso delle unioni fra persone dello stesso sesso», si spiega nel responsum. «La presenza in tali relazioni di elementi positivi, che in sé sono pur da apprezzare e valorizzare, non è comunque in grado di coonestarle e renderle quindi legittimamente oggetto di una benedizione ecclesiale», si scrive ancora nel responso della Congregazione. Tanto più nell’imminenza dell’apertura (19 marzo, solennità di San Giuseppe) dell’anno dedicato alla Amoris laetitia e all’amore familiare.
«Un peccato? No comment. Dio li ha creati, li ama e vuole che siano felici», titola oggi il Corriere della Sera un’intervista a padre James Martin, gesuita statunitense da tempo impegnato in una battaglia a favore di presunte conquiste LGBT+ nella Chiesa, che gli è particolarmente propria. E poco importa anche che la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, faccia sapere in merito al presidente Joe Biden: «Non credo che abbia una risposta personale al Vaticano, no. Continua a credere e a sostenere le unioni dello stesso sesso, come sapete. Ha da tempo questa posizione».
Un’affettata sorpresa sembra essere l’atteggiamento predominante nell’intero campo cosiddetto progressista di fronte al responsum della Congregazione, dentro e fuori dalla Chiesa. Neppure il mantra “condannare il peccato ma non il peccatore”, essenza della misericordia propriamente intesa ma da qualcuno utilizzato come grimaldello per scassinare Scritture e dottrina, sembra più condivisibile in certi ambienti: è alla base anche dell’impostazione del responsum della Congregazione della dottrina per la fede, che tiene insieme verità e pastorale, come più volte chiesto anche da papa Francesco, ma ormai non basta più.
Sorpresa – e delusione e fastidio – ancora meno giustificati di fronte ad una non-novità coerente con le posizioni a più riprese ribadite anche dallo stesso Pontefice. Unica – apparente – eccezione quella espressa dal Papa in un’intervista montata ad arte nel docu-film “Francesco”: molto rumore per un contesto e una vicenda dai contorni fumosi, ma in ultima analisi, al di là di letture ideologiche di segno opposto, facilmente riconducibile nell’alveo della coerenza magisteriale e personale del Papa. Riflessione che piuttosto rimane aperta, invece, in tema di gestione della comunicazione.
È interessante rilevare che con il responsum della Congregazione per la dottrina della fede per la seconda volta in poche settimane da Roma giunge una risposta neppure troppo indiretta alla Chiesa in Germania. Proprio la benedizione delle unioni omosessuali figura, infatti, tra gli auspici del Sinodo in corso nel cuore dell’Europa, sul filo del rasoio dello scisma. La nota della Congregazione per la dottrina della fede «ripete lo stato del magistero della Chiesa come si riflette in diversi documenti romani», ma «non ci sono risposte facili a domande come queste»: è la sibillina reazione di mons. Georg Bätzing, vescovo di Limburgo ed erede del card. Reinhard Marx alla presidenza della Conferenza episcopale tedesca. La stizza è palpabile, tanto da derubricare la questione ad un fatto di meri punti di vista. «I punti di vista che oggi la Congregazione ha presentato devono e dovranno ovviamente trovare un posto in queste discussioni [del Sinodo]», taglia corto Bätzing.
Nel gennaio scorso era, invece, stata la volta del ruolo delle donne nella Chiesa, altro cavallo di battaglia – proposto a modo suo – del Sinodo della Chiesa in Germania, e non solo. Tema doppiamente delicato, perché giustamente caro a papa Francesco e ad ogni cristiano di buon senso, ma che troppo spesso finisce con l’essere femminismo, un «machismo con la gonna», secondo un’efficace definizione che fu del Papa, violentemente contestata. A gennaio era stato direttamente Francesco, con un motu proprio che ha aperto alle donne i ministeri del Lettorato e dell’Accolitato, ad indicare il senso e la direzione della sempre maggiore valorizzazione delle donne nella Chiesa, e al tempo stesso a raffreddare ogni ingiustificato ardore verso la consacrazione sacerdotale delle donne.
Un’altra non-novità, che aveva suscitato delusione a nord delle Alpi e ad ovest dell’Atlantico. «Una Chiesa senza le donne è come il collegio apostolico senza Maria», aveva chiarito Francesco addirittura nel 2013, di ritorno dalla GMG in Brasile. Tuttavia, «per quanto riguarda l’ordinazione delle donne, la Chiesa ha parlato e ha detto no. Giovanni Paolo II si è pronunciato con una formulazione definitiva, quella porta è chiusa». E più non dimandare. Basta così, ché viene a noia.
Sul sentiero del “cammino sinodale” avviato in Germania rimane, però, ben più di un macigno. E se evidenti sinergie sono possibili su lotta agli abusi sessuali e maggiore trasparenza dell’uso del denaro (con la Chiesa in Germania che è fra le più ricche al mondo, una macchina da miliardi di euro, migliaia di posti di lavoro, crisi all’orizzonte e parecchi interessi), un accordo con Roma appare tutt’altro che realizzabile in tema di abolizione del celibato sacerdotale e intercomunione, altre due questioni sul tavolo del Sinodo tedesco. Sull’intercomunione, ossia la distribuzione dell’Eucaristia anche ai non cattolici, il Papa, per tramite della Congregazione per la dottrina della fede guidata dal card. Ladaria Ferrer, si è pronunciato nel giugno 2018, frenando le soluzioni affrettate di una parte dell’episcopato tedesco.
E c’è da scommettere che ben presto da Roma si tornerà a dire a nuora perché suocera intenda. Ovvero a pubblicare documenti indirizzati alla Chiesa universale perché si intenda con chiarezza la voce del Papa in certe periferie, tutt’altro che esistenziali.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.