Alle cerimonie di insediamento dei nuovi Presidenti Usa si prega. Pregano i cristiani, e non solo. Così sarà anche con Joe Biden, il prossimo 20 gennaio, con il ritorno del Cattolicesimo (e dei Gesuiti) sulla scena, come già con Donald Trump. Con risultati tutti da verificare.
L’ostentazione di messaggi pseudo-religiosi nel corso delle manifestazioni e del successivo assalto al Campidoglio di Washington nei giorni dell’Epifania (“Jesus saves”, “Jesus 2020”, “In God we trust”, “Pelosi is Satan”) non è che l’ultimo atto di una commistione fra politica e religione, a tratti virtuosa, in molti casi soffocante, che caratterizza lo stile politico americano. Ne è un simbolo la presidenza Trump, con il suo peculiare nazionalismo di presunta matrice cristiana, e lo saranno i prossimi quattro anni dell’amministrazione Biden, che da questo punto di vista si annunciano non meno insidiosi. Lo hanno chiarito le preghiere ospitate in entrambe le convention, repubblicana e democratica, a conclusione dell’ultima campagna elettorale, con il prevedibile carico di contraddizioni.
Preghiera è anche quella, non meno significativa, che dal 1937 accompagna ufficialmente la cerimonia di insediamento dei presidenti degli Stati Uniti, compresa quella che si terrà il prossimo 20 gennaio per Joseph “Joe” R. Biden. Per allora è già stata annunciata la partecipazione di padre Leo J. O’Donovan s.j., presidente emerito della Georgetown University di Washington e direttore di missione per il Jesuit Refugee Service statunitense. Non si tratta del primo gesuita invitato a recitare una preghiera ad una cerimonia di insediamento e neppure del primo presidente dell’Ateneo (lo precede padre Timothy S. Healy s.j., nel 1985): la Georgetown, che si fregia del titolo di più antica università cattolica degli Stati Uniti, è una roccaforte dei Gesuiti, negli anni più volte al centro di critiche per le dubbie prese di posizione in tema di aborto, bioetica e gender.
La presenza di padre O’Donovan è un elemento di continuità per Biden. Il religioso ha, infatti, officiato il funerale del figlio del nuovo Presidente Usa, Beau, scomparso nel 2015, e Joe Biden ha già dimostrato il proprio legame con alcuni esponenti della Compagnia di Gesù invitando padre James Martin s.j. a recitare la preghiera alla convention democratica del 20 agosto scorso, insieme a suor Simone Campbell.
Padre O’Donovan non è, però, sconosciuto alle cronache. Già oggetto di critiche per lo spazio concesso alla ricerca sui tessuti fetali e a relatori del calibro dell’editore del porno Larry Flynt, nel 1991, durante la sua presidenza, la Georgetown University finisce al centro di un’accesa controversia che coinvolge opposti gruppi di studenti, ma anche l’arcivescovo di Washington, il card. James A. Hickey, il politico conservatore Patrick J. Buchanan e diversi esponenti del mondo della cultura, fra i quali William Peter Blatty, autore del romanzo L’Esorcista. Al centro della discussione è l’appoggio dell’Università, in termini di finanziamenti e locali, ad un gruppo studentesco pro-choice, favorevole all’aborto, al pari di quanto fatto a beneficio di altri gruppi, anche di opposta convinzione. Una petizione che domanda la revoca della qualifica di “cattolica” all’Università e l’interessamento degli organi vaticani alla vicenda portano, nell’aprile 1992, alla decisione di sospendere il finanziamento al gruppo abortista, con una lettera indirizzata dallo stesso O’Donovan agli studenti, dove il gesuita spiega come l’intenzione originaria fosse di garantire libertà di discussione all’interno dell’Ateneo.
A padre O’Donovan si deve anche la creazione, nel 1993, del Center for Muslim-Christian Understanding (Centro per la Comprensione Musulmano-Cristiana) all’interno della Georgetown University, oggi intitolato al principe saudita Al-Walid bin Talal. Scopo del Centro è il miglioramento delle relazioni fra l’Occidente che si professa cristiano e il mondo islamico. Sei anni dopo, nel 1996, la Georgetown è la prima università statunitense ad assumere un cappellano musulmano a tempo pieno, l’imam Yahya Hendi.
Padre Leo J. O’Donovan non smette di far parlare di sé neppure dopo la fine della sua presidenza. Nel 1996, terminato l’incarico alla Georgetown University, padre O’Donovan è nominato nel consiglio di direzione della Walt Disney Company. Per la celebre multinazionale (anche) dei cartoni animati il momento allora non è dei più facili, subissata com’è di pesanti critiche da parte di diversi gruppi religiosi negli Stati Uniti per la sudditanza in tema di omosessualità e teorie del gender. «Avrò la responsabilità di offrire buoni consigli sulle implicazioni morali di parte della produzione della compagnia», spiega allora padre O’Donovan. «Non voglio essere moralista o parlare di requisiti morali, ma penso che l’intrattenimento, così come l’istruzione, diventi più umano e più significativo quando le dimensioni morali sono tenute in considerazione».
La partecipazione di padre O’Donovan alla cerimonia di insediamento di Joe Biden rappresenta anche la conferma di un ritorno del Cattolicesimo in queste occasioni. Sin dal 1937, quando si afferma la prassi di includere una o più preghiere all’inizio di un nuovo mandato presidenziale, recitate da esponenti di diverse religioni o confessioni religiose, soprattutto cristiane, non è mancata la presenza di membri della Chiesa cattolica, tra le principali comunità di fede nel Paese. Accade fin dall’inizio, nel 1937, con la cerimonia di insediamento di Franklin D. Roosevelt, che vede la partecipazione di don John A. Ryan, docente di teologia morale alla University of America, sensibile ai temi della giustizia sociale.
Una presenza costante, con poche eccezioni, fino al 1985, con il susseguirsi di padre Michael J. Ready, segretario generale della National Catholic Welfare Conference (Franklin D. Roosevelt, 1941), mons. John A. Ryan (Franklin D. Roosevelt, 1945), mons. Patrick A. O’Boyle, arcivescovo di Washington (Harry S. Truman, 1949 e Dwight D. Eisenhower, 1953), card. Richard Cushing, arcivescovo di Boston (John F. Kennedy, 1961), mons. Robert E. Lucey, arcivescovo di San Antonio (Lyndon B. Johnson, 1965), mons. Terence J. Cooke, arcivescovo di New York (Richard Nixon, 1969 e 1973), mons. John R. Roach (Jimmy Carter, 1977) e il già ricordato padre Timothy S. Healy s.j., presidente della Georgetown University (Ronald Reagan, 1985).
Si inaugura dal 1985 una lunga fase di assenza formale di voci cattoliche alle cerimonie di insediamento dei presidenti americani, che attraversa i pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e i primi anni di Francesco, coincidente con l’elezione del repubblicano George H. W. Bush, i due mandati del democratico Bill Clinton, i due del repubblicano George W. Bush e i due del democratico Barack Obama. Si susseguono in questi anni per lo più esponenti di diverse denominazioni battiste, metodiste ed episcopaliane. Dopo oltre vent’anni, il ritorno di una voce cattolica ad una cerimonia di insediamento – tra le più affollate, con sei tra invocazioni e benedizioni – si ha nel 2017 con Donald Trump e l’arcivescovo di New York, il card. Timothy M. Dolan.
Si tratta, come si può ben immaginare, di un appuntamento fortemente istituzionale, indipendente – per quanto non del tutto avulso – dal credo religioso dei nuovi presidenti. Diverso è il caso del momento di preghiera, più personale e meno istituzionale, che spesso precede la cerimonia pubblica: facile distinguere qui il caso di John F. Kennedy, unico presidente cattolico degli Stati Uniti prima di Joe Biden, che la mattina del 20 gennaio 1961 prende parte alla Messa celebrata nella Chiesa cattolica della Santa Trinità di Georgetown, a Washington. Che poi i valori del Cattolicesimo si insedino effettivamente nell’agenda dei presidenti degli Stati Uniti è tutta un’altra storia.
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