«Per una persona che ama l’arte ipotizzare di distruggere delle opere è sempre e comunque inaccettabile». Al tempo stesso, «la violenza non va mai giustificata». Intervista alla teologa e storica dell’arte Giuliana Albano.
L’arte sacra è davvero sacra? Dipende. Osservando quel che talvolta adorna lo spazio dei luoghi di culto, mescolandosi ad architetture di indole incerta, è sempre più difficile sentirsi trasportati verso un “oltre” che non sia l’orizzonte piatto del mondo materiale.
Lasciandosi ispirare dalla storia, si potrebbe ricordare che anche nel tardo Impero Romano, nei decenni che ne accompagnarono il disfacimento, l’arte giunse a rappresentare in tutto il suo realismo le contraddizioni di un mondo in transizione. Ma se l’arte sacra non sa più farsi testimone della fede, inevitabilmente finisce con l’esserlo della sua mancanza. Una miseria culturale e spirituale che non risparmia neppure una parte dei committenti, anche nella Chiesa.
E poi ci sono gli artisti. La loro opera, insieme alla loro persona. Perché se è vero che non tutta l’arte sacra che popola le chiese di ogni tempo è stata realizzata da artisti “santi”, è pur lecito immaginare che una ferita recente faccia più male di una antica. E che possa risultare più odiosa. Basti pensare alle accuse di pedofilia mosse contro il sacerdote francese Luis Ribes, morto nel 1994 e noto come il “Picasso delle chiese”, o agli abusi sessuali, psicologici e spirituali attribuiti da diverse donne al gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik. Per entrambi il dibattito è acceso a livello mondiale sull’opportunità di rimuovere le loro opere dai luoghi di culto.
Ne parlo con la prof.ssa Giuliana Albano, condirettrice insieme al gesuita padre Jean-Paul Hernandez della Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia (Safat) della Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale (Pftim) – Sezione San Luigi, prima donna alla guida di una Scuola di arte e teologia in Italia.
Professoressa Albano, è tutta propriamente “arte sacra” quella che si trova nelle chiese?
A questa domanda – forse sarebbe meglio dire “domandona” – la risposta canonica prevederebbe che citassi innanzitutto le definizioni di “arte sacra” classiche, ad esempio quelle di Titus Burckhardt, Timothy Verdon, o meglio quanto dichiarato nel Concilio Vaticano II con la riscoperta del sacro e il superamento della crisi religiosa nella postmodernità. Preferisco, invece, rispondere più che da teologa da storico dell’arte. Imprigionare un’opera d’arte all’interno di una rigida definizione è quasi sempre impossibile, e nello specifico caso di opere collocate all’interno delle chiese, il confine tra sacro e profano è in continua sovrapposizione. Basti pensare alle molteplici simbologie pagane presenti in tantissimi luoghi delle prime comunità cristiane o a caratteristiche profane ad esse legate. Faccio un esempio concreto: “La morte della Vergine” di Michelangelo Merisi da Caravaggio è un’opera di arte sacra? Penso che tutti contemplandola risponderebbero di sì, eppure la tela fu rifiutata dalla committenza. Ma la drammaticità della scena è senza precedenti nella storia di questo soggetto, in genere interpretato come dormitio virginis solenne o delicata come, ad esempio, l’aveva raffigurata Pietro Cavallini nel mosaico della vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Qui, invece, il genio di Caravaggio concentra il dolore muto dei poveri di fronte alla morte della madre. È la rivoluzione che il pittore porta nell’arte sacra, facendovi entrare la gente umile e il vissuto quotidiano, per dare ancora più credibilità all’evento narrato. Il Merisi parla del dolore e della morte come di uno strazio indicibile, e si direbbe inconsolabile, davanti al corpo gonfio della Madonna ormai spenta. Un ventre gonfio che si collega chiaramente al tema della maternità di Maria. Un realismo che fece scandalo. Si racconta che l’artista abbia utilizzato come modella il corpo di una prostituta annegata nel Tevere; eppure, la verità della scena, il sentimento corale del lutto è chiaro, come se l’umanità tutta piangesse su questa morte, generando un’atmosfera sacra come poche volte nell’arte. Forse a questo punto converrebbe mettere da parte le definizioni e fidarsi dell’istinto di fronte ad un’opera d’arte. In realtà, se un’opera d’arte ci aiuta a comprendere le Sacre Scritture o, più in generale, se facilita il nostro rapporto con il Signore, è certamente sacra.
Oggettivamente, però, è difficile cogliere la “sacralità” in alcune opere d’arte: cattivo gusto o un sintomo di crisi della fede, e della Chiesa?
Dobbiamo riflettere seriamente sull’arte sacra, in particolare contemporanea. Cosa comunica e in che modo sono interpretati i linguaggi? È sufficiente la correttezza iconografica per parlare di arte sacra? Come già accennato, gli esempi di convivenza tra sacro e profano nell’arte sono svariati. È nella natura stessa di molti artisti, e il rischio è forte che si sfoci dal sacro nel profano. Alcuni casi contemporanei ci fanno riflettere su questioni riguardanti ambiti che richiedono necessariamente l’interdisciplinarietà e soprattutto approfondire il dialogo tra gli studiosi e gli operatori del settore attraverso una molteplicità di vedute. Penso all’Altare e dell’Ambone della basilica di Santa Maria Assunta di Gallarate di Claudio Parmiggiani (2015-2018). Si tratta di un’opera importante, all’inizio senza dubbio spiazzante, ma densa di significati, carica del senso della storia e del suo incontro con la liturgia. Le teste “decapitate” – su cui si sono concentrate tante polemiche – possono effettivamente apparire un dettaglio macabro: eppure, non si può dimenticare che gli altari delle basiliche antiche sorgevano sopra i corpi dei martiri e che immagini di decapitazioni non sono infrequenti nella storia plurisecolare dell’iconografia cristiana. Un invito, quindi, per il cristiano alla riflessione sulla morte e sulla possibilità di resurrezione attraverso il sacrificio di Cristo celebrato durante la Messa, l’opera diventa una meditazione per riportare alla mente il mistero eucaristico. È un connubio di dimensione reale e spirituale, una dialettica tra sacro e profano che si svolge senza interruzione in un vortice di luce. Opere di questo tipo provocheranno sempre infinite discussioni che, secondo il mio modesto parere, lasceranno invariate e indistinte le varie posizioni accademiche.
Negli ultimi anni, in obbedienza alla cosiddetta cancel culture, ci si è più volte scagliati contro monumenti eretti in onore di personalità del passato, giudicate inaccettabili secondo la mentalità oggi predominante. Cosa pensare, però, se la ragione dell’ostilità sta piuttosto in più recenti fatti di cronaca, anche ecclesiale?
Per una persona che ama l’arte ipotizzare di distruggere delle opere è sempre e comunque inaccettabile. La cosa appare ancora più odiosa se la motivazione è basata su una ideologia o un credo religioso. Le opere del passato hanno sempre un valore storico enorme e possono avere in alcuni casi anche un valore artistico. Pensare che distruggere quest’opere possa servire a rafforzare le idee o i credi del momento è sintomo di scarsa intelligenza. Anzi, normalmente queste azioni evidenziano una palese debolezza di chi le compie e dell’ideologia che rappresentano. I periodi storici, anche se molto negativi, vanno raccontati e studiati per, eventualmente, analizzarli ed evitarli in futuro. Le opere del passato rappresentano la memoria storico-artistica che va assolutamente preservata e difesa ad ogni costo. Perché l’Isis ha distrutto i templi di Palmira? Perché ha puntato la sua strategia anche sul dissolvimento della memoria storica e artistica? Perché questa, legando il presente al passato, riflette i percorsi dell’uomo, l’arte è memoria dell’uomo nella sua dimensione più autentica; non si ferma alle forme, ma attraverso di esse racconta la storia umana. Per sua natura l’arte è apertura al dialogo, alla condivisione, è capace di testimoniare come nessun’altra espressione umana il senso e i valori di un destino comune. La storia dell’arte, a leggerla in profondità, testimonia costantemente questo dato, che è alla base delle commistioni tra linguaggi e sensibilità, nell’arte visiva come nell’architettura, al di là delle stesse ragioni storiche che possono averle determinate.
Eliminare le opere d’arte da un luogo di culto non è come toglierle da una piazza. La liturgia, se non addirittura la teologia, hanno qualcosa da dire in proposito? Che legame esiste, se esiste, fra arte sacra e santità dell’artista?
A questa domanda non posso che rispondere come condirettrice della Scuola di Alta Formazione di Arte e Teologia e docente di Arte Sacra. Il nostro corso di Diploma vuole essere un luogo di vera e propria elaborazione teologica, capace di rinnovare l’ermeneutica dell’arte cristiana e di fornire una nuova dimensione della riflessione teologica. Perciò la proposta della Scuola non è un giustapporre corsi di arte e corsi di teologia. La Scuola si chiama “di arte e teologia”: la congiunzione “e” esprime la sfida di una vera e propria teologia dell’arte. Come ci ricorda papa Francesco, la teologia non è fine a sé stessa, ma ha senso solo se è in uscita. Un’uscita che è, al tempo stesso, “ascolto” e “dialogo”, vale a dire un lasciarsi coinvolgere dai diversi contesti e dalle diverse realtà umane che si approcciano all’arte e alla sua teologia. La Scuola punta ad una lettura delle opere completamente diversa, uno studio sistematico di come l’esperienza di fede si è “proiettata” nell’organizzazione dello spazio, sia reale (architettura) che figurato (pittura). Dunque, leggere e fruire l’opera d’arte attraverso gli strumenti dell’analisi narrativa, così da “restituire la parola all’arte” in prospettiva teologica. Lo scopo è “far parlare” un edificio di culto: non solo di analizzare i fenomeni artistici, ma anche di valorizzazione l’arte cristiana. Leggere teologicamente, antropologicamente, un territorio. Ed è l’orizzonte teologico, liturgico e spirituale che deve essere “chiamato” per interpretare scientificamente un’opera nata per la liturgia e per la preghiera. La necessità di operare nella direzione di chiari collegamenti tra opera d’arte, contesto e liturgia. Da qui, l’importanza della formazione di quelle figure che potrebbero creare un sano dibattito sul contemporaneo: mi riferisco non solo agli artisti, agli architetti e ai progettisti, ma anche ai liturgisti e ai presbiteri. Una buona formazione potrebbe riattivare e rendere proficuo questo dialogo.
Fatti più o meno recenti, anche nella Chiesa, ci parlano di un possibile connubio fra arte e abusi sulle donne. Cosa prova da professionista, ma soprattutto da professionista che è donna?
Tanto si legge intorno a questo dramma e tante sono le opinioni della società pubblica. Chi condanna, chi cerca di capire, chi generalizza e chi invece ci tiene a fare distinzioni, ritenendo che la violenza non necessariamente è sempre rivolta al “sesso debole”. Il temine violenza significa “che vìola”, cioè che oltrepassa il limite della volontà altrui, e si riferisce a quelle azioni esercitate da un soggetto su un altro, in modo da costringerlo ad agire contro la sua volontà. In un mondo in cui la violenza sulle donne è un dramma sfortunatamente ancora presente, storie come ad esempio quella di un’artista, Artemisia Gentileschi, violentata da Agostino Tassi, pittore collaboratore del padre Orazio Gentileschi, possono essere esempio positivo per tutte, affinché non si perda mai la voce e la forza di denunciare e di lottare contro abitudini tossiche e comportamenti profondamente umilianti, che continuano purtroppo a essere tollerati o addirittura giustificati.
Artemisia Gentileschi è l’esempio di una donna indomita, fiera, talentuosa. Non segue le regole: raffigura, infatti, soggetti non ritenuti idonei a una pittrice, dipinge soggetti sacri, storici, soprattutto eroine bibliche, perché attraverso di esse esprime la sua stessa forza e soprattutto la drammaticità della sua vita. Le donne che dipinge hanno sempre negli occhi qualcosa di lei, della sua storia; non hanno solo un corpo, ma anche un’anima che traspare dalla tela. Attraverso la pittura, l’artista riesce a trovare il modo di dar voce al suo dolore, di guadagnarsi la sua rivincita senza essere annientata da una società chiusa e maschilista. La sua grandezza è stata riuscire a trasformare il dolore e la vergogna in via della bellezza. La violenza non deve esistere e non deve mai essere giustificata, poiché nessun “buon motivo” può permettere ad una persona di violare la dignità di un’altra. Purtroppo, questo non sempre accade, la violenza esiste, così come esistono le guerre, e quindi bisogna comprendere senza giustificare. La violenza non va mai giustificata.
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Bellissimo articolo e convincente. C’è un rischio nell’arte sacra odierna: che il “segno” non rimandi più al “significato” perché la catechesi è molto povera al riguardo del significato, come lo è nella liturgia. Se un fedele non sa che la celebrazione dell’Eucarestia avveniva su un altare che ricopriva il corpo di un martire, le teste dell’altare di Gallarate diventano “insignificanti”. Lo stesso dicasi per le pitture di Matisse a Vence o alla vetrate di Chagal a Metz o ai mosaici di Ruptnik o a Arcabas a Grenoble. Un tempo, l’arte sacra era la Bibbia dei poveri. Oggi i fedeli hanno bisogno di un catecheta per comprenderne il messaggio altrimenti il segno rimane per loro incomprensibile!
Un buon catecheta che insegni anzitutto a guardarsi dai falsi maestri.