Di pugni, crisi e vecchie blasfemie

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La satira dissacrante e anticristiana è da secoli espressione di una società opulenta e in crisi esistenziale. Con un primato: la più antica rappresentazione conosciuta del Crocefisso. Una testa d’asino e qualche sorpresa prima di Nicea.

Nella conferenza stampa sul volo di rientro a Roma, papa Francesco è tornato a soffermarsi sui limiti della libertà di espressione, chiarendo ulteriormente – se ce ne fosse bisogno – il senso di quel suo “pugno” che ha fatto il giro del mondo. «C’è la prudenza, che è una virtù della convivenza umana», ha detto il Pontefice. «Io non posso insultare, provocare una persona continuamente, perché rischio di farla arrabbiare, rischio di ricevere una reazione non giusta. Per questo la libertà deve essere accompagnata dalla prudenza». Inedito confronto con espressioni di libertà e revanscismo in salsa républicain? Non proprio, perché la satira blasfema, anche anticristiana, è da secoli espressione di una società in crisi economica ed esistenziale.

Anonimo, Graffito di Alexamenos, II-III secolo, Roma, Museo Antiquarium Forense e Antiquarium Palatino
Anonimo, Graffito di Alexamenos, II-III secolo, Roma, Museo Antiquarium Forense e Antiquarium Palatino.

Alexamenos sebete theon, Alessameno adora [il suo] dio, recita in cattivo greco la scritta che accompagna il graffito, tracciato con più piglio contestatore che perizia artistica. Ai piedi della croce, Alexamenos, in mimico raccoglimento orante. Una scena che nella sostanza sarebbe comune a molta parte della produzione artistica di soggetto cristiano, se il Cristo crocifisso non avesse una testa d’asino e se proprio questa rappresentazione non fosse la più antica conosciuta di un Crocifisso.

Inciso presso il Paedagogium, il graffito è probabilmente riconducibile all’opera di un ignoto pagano, forse un paggio, impegnato ad irridere un suo conoscente cristiano, Alessameno, un collega in quello che nel complesso del palazzo di Domiziano sul colle Palatino era una sorta di collegio destinato ad istruire i paggi imperiali provenienti da classi sociali medio-alte. Un ambiente, espressione di una società opulenta, non fra i più inclini al Cristianesimo – e all’Ebraismo – tanto più nella crisi sociale ed esistenziale che caratterizzò il III secolo. La testa di asino è un esempio di questa intolleranza latente, pur in una popolazione formalmente adusa all’importazione di culti orientali. Una diffusa opinione voleva gli ebrei onolatri, adoratori di una divinità variamente asinina od onocefala. Con la sua diffusione a Roma, il pregiudizio antigiudaico si trasferì al Cristianesimo, spesso nella forma del Cristo onokoetis (figlio di asino).

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Il graffito di Alexamenos si colloca nell’età di profonda crisi politica, economica, esistenziale e religiosa quale fu il III secolo per un Impero Romano ormai avviato sulla via del disfacimento. L’economia, fortemente basata sull’espansione militare, subì un repentino declino in assenza di nuove conquiste, generando sempre maggiori disparità e tensioni sociali. Nello stesso periodo, l’avvento di nuovi culti, per lo più di origine orientale, si accompagnò alla diffusione di una sempre più radicata dimensione misterica e di fuga dalla realtà, unitamente alla crisi dei sistemi religiosi e filosofici tradizionali, sempre più incapaci di offrire adeguate chiavi di lettura della fine del “sogno Romano”. È in tale contesto che il Cristianesimo fu in grado di inimicarsi rapidamente – e violentemente – una parte della società e un potere politico sempre più autoritario, nel rifiuto di riconoscere la divinità di un imperatore sempre più dominus ac deus. Al di là della sua blasfemia denigratoria e a differenza della satira moderna, però, il graffito di Alexamenos è in grado di dirci di più, anche religiosamente.

In un’epoca nella quale la Chiesa stava ancora affrontando l’acceso dibattito sulla divinità di Cristo, dall’anonimo pagano in vena di lazzi ci giunge infatti un’importante testimonianza della teologia cristiana precedente al primo concilio di Nicea (325), nell’attestazione di come Alessameno e gli altri cristiani della sua comunità adorassero già il Cristo come Dio. Non solo: l’onocefalia di Gesù lo indica, con tutte le singolari blasfemie del caso, quale vero Figlio di Dio. Dal ultimo, non ne tace la morte per crocifissione, allora tanto scomoda da affermarsi artisticamente soltanto secoli più tardi, in opere quali il portale ligneo della basilica romana di Santa Sabina all’Aventino (V secolo) oppure nella tavoletta con la Morte di Giuda e crocifissione di Cristo (inizio del V secolo, Londra, British Museum), fra le più antiche rappresentazioni della crocifissione in ambiente cristiano.

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Ad oltre due secoli dalla morte di Cristo, infatti, la croce, strumento di morte infamante, non si era ancora affermata come il simbolo per antonomasia della Cristianità quale verrà riconosciuto dalla produzione artistica delle epoche successive. Non solo: al tempo dell’anonimo autore del graffito, la raffigurazione della crocifissione di Cristo, scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, era addirittura scoraggiata, se non vietata, perché ritenuta politicamente inadatta a rappresentare un Cristianesimo – ed un Impero – vincenti. Altri erano infatti i simboli del Cristianesimo del tempo, fra i quali spiccò in età tardo-antica il chi-rho, o chrismon, il monogramma in greco di Cristo, emblema per eccellenza di un Cristianesimo allora in procinto di divenire religione dell’Impero Romano, come sarà ufficialmente soltanto da Teodosio I (391).

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