Si può contribuire a cambiare la storia anche con un regalo. Bene lo ha dimostrato Paolo VI: prima donando la propria tiara ai poveri nel 1964, dopo una celebrazione con il patriarca di Antiochia dei Melchiti, Massimo IV Saigh, fra i protagonisti del Vaticano II; in seguito imponendo la propria stola sulle spalle del patriarca di Venezia, Albino Luciani, nel 1972, in seguito suo successore; e, fra i due momenti, privandosi anche di un anello.
È il 24 marzo 1966 e per la prima volta dopo quattro secoli un Arcivescovo di Canterbury, Michael Ramsey, torna ad incontrare un Pontefice, Paolo VI. Un precedente c’era stato sei anni prima, con Giovanni XXIII e Geoffrey Francis Fischer, ma in quel caso si era trattato di una visita privata. Secondo programma, Paolo VI e Ramsey, incontratisi il giorno precedente, guidano una celebrazione ecumenica nella basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma. La liturgia sottolinea la vicinanza fraterna fra i due e la Dichiarazione comune siglata nell’occasione affida alla storia «una nuova atmosfera di comunione cristiana tra la Chiesa cattolica romana e le Chiese della Comunione anglicana».
Ma è all’esterno della basilica che Ramsey è atteso da un appuntamento con la storia. Fra i pochi ad esserne informati, il segretario del Papa, don Pasquale Macchi, e il cappellano di Ramsey, John Andrew, contattato privatamente da Macchi la sera prima, insieme ad un altro collaboratore di Ramsey. Ci si accorda perché per l’Arcivescovo di Canterbury sia una sorpresa.
E la sorpresa riesce. A dir poco. Paolo VI, coadiuvato da Andrew con l’inglese, chiede a Ramsey di togliere l’anello che porta al dito. Prima che questi se ne renda conto, Paolo VI lo sostituisce con il proprio, realizzato in oro e pietre. Un regalo, anche per Paolo VI: ricevuto due anni prima, al ritorno dallo storico pellegrinaggio in Terra Santa, da parte del filosofo francese Jean Guitton, primo uditore laico al Concilio Vaticano II.
Le implicazioni ecclesiali potrebbero essere molte, ma più semplicemente si riassumono in un «dialogo [che] dovrebbe includere non solo questioni teologiche come Scrittura, Tradizione e liturgia, ma anche questioni di difficoltà pratica sentite da entrambe le parti». Una “teologia della vita”, come nell’opera di Joseph Ratzinger.
Diverse fotografie immortalano il dono dell’anello. Una, in particolare, è carica di speciale suggestione, con sullo sfondo la statua di san Paolo a benedire “l’unione”, insieme ai mosaici di Agnus Dei ed Apostoli sul monte del paradiso e, subito sotto, alcuni dei profeti dell’Antico Testamento.
Ma, per Ramsey, più dell’atmosfera vale il gesto. Il saluto a Paolo VI è un abbraccio in lacrime. Affettuoso anche il congedo del suo cappellano John Andrew, che – senza più un anello da baciare infilato al dito del Papa – si inginocchia e ne bacia le mani, subito fatto rialzare da Paolo VI.
Ramsey indossa l’anello Paolo VI per il resto della vita. L’oggetto, che ancora oggi mantiene inalterato il proprio valore simbolico, diviene in seguito proprietà del Lambeth Palace, la residenza ufficiale degli Arcivescovi di Canterbury. È usanza che l’anello che fu di Montini venga ancora oggi indossato dagli Arcivescovi di Canterbury nelle visite ai Pontefici. Così hanno fatto, ad esempio, Rowan Williams con Giovanni Paolo II e più recentemente Justin Welby con Francesco.
Fra le pieghe della storia, è curiosa la vicenda personale di John Andrew, il cappellano dell’Arcivescovo Ramsey. E non solo perché diviene il proprietario della scatola che conteneva l’anello di Montini, donatagli dal Papa. Ma soprattutto perché l’intera sua vita è intessuta di rapporti ecumenici con la Chiesa cattolica, fino alla sera stessa della sua morte.
Controverso cappellano di Ramsey dal 1961 al 1969, Andrew è di volta in volta troppo giovane (30 anni al suo ingresso a Lambeth Palace), troppo determinante nel filtrare i contatti con Ramsey, troppo affezionato alle scarpe di lusso, alle porcellane, all’alta società. In realtà, la sua è una carriera brillante, per quanto significativamente mai coronata dall’episcopato, segnata anche dall’esperienza nella celebre chiesa di Saint Thomas, New York City, Fifth Avenue, fra gli edifici di culto più iconici al mondo. Di Andrew molti fedeli ricordano l’impegno nella musica liturgica, la grande capacità pastorale e di predicazione, l’instancabile lavoro di tessitura ecumenica con la Chiesa di Roma.
In questo, lo sostengono i numerosi rapporti con esponenti di spicco delle Chiese cristiane, dentro e fuori la Chiesa anglicana. In campo cattolico, è significativa l’amicizia con il card. Terence Cook, arcivescovo di New York, e con il card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Anche il 17 ottobre 2014, la sera della sua morte a causa di un arresto cardiaco, John Andrew è a cena con l’arcivescovo John J. O’Hara, vescovo ausiliare di New York. Alcuni dicono sognasse di morire nella Chiesa cattolica. Testimone di un “matrimonio fra Chiese”, non si sposò mai.
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