La straordinaria attualità del Dante “cattivo” del Canto XXVIII dell’Inferno, dove sono puniti i seminatori di divisione. Che sono al lavoro anche in tempi di coronavirus.
Diciamocelo francamente: con l’epidemia di Covid-19 l’Italia ha dimostrato tutto il suo valore e al tempo stesso tutti i suoi limiti come nazione. A molto è valso il plauso unanime all’eroismo di un gran numero di medici e di operatori sanitari, lodevole è stato l’impegno della maggior parte dei cittadini, rispettosi di sé e degli altri fino all’isolamento, apprezzabile la responsabilità di un mondo scientifico in gran parte impreparato alla sfida. Di contro, la plurisecolare frammentazione del Paese in ideologie, territori, interessi ed egoismi non è mai venuta meno, confermandosi anche in questa occasione il vero rumore di fondo della storia d’Italia.
D’altro canto, in questa pandemia anche la Chiesa ha più volte ceduto terreno alla divisione. A cominciare dalla decisione dei vescovi italiani di sospendere la celebrazione delle Messe alla presenza fisica dei fedeli, strumentalizzata da una parte dell’universo sedicente conservatore. Per proseguire con il disconoscimento da parte dell’opinione pubblica degli aiuti economici – pur ingenti e preziosi – venuti dalla Chiesa cattolica e tratti dall’8 per mille, per finire con qualche polemica politica e con un’interlocuzione fra Santa Sede e Conferenza Episcopale Italiana a tratti asincrona. Eppure una Chiesa, una volta di più, unita dal sacrificio silenzioso – mai sufficientemente celebrato – dei tanti pastori che hanno consegnato la propria vita per il servizio del gregge.
Chi può vantare un legame di lunghissima data e di straordinaria profondità con la Chiesa è anche Dante Alighieri. Fra gli eventi guastati da questa pandemia sono certamente da annoverare le celebrazioni per la prima giornata nazionale dedicata al Sommo Poeta, finita ricordata virtualmente lo scorso 25 marzo, in pieno lockdown, con l’hashtag #DantiDì.
Fra le pagine di maggiore interesse – e attualità – della sua Commedia si annoverano quelle che compongono il canto XXVIII dell’inferno, dedicato da Dante ai seminatori di scismi. Il linguaggio colorito e alcune delle scene più cruente dell’intero poema tradiscono tutto il coinvolgimento personale di Dante, vittima egli stesso dei più nefasti frutti della divisione in fazioni e conflitti. Ma ci dicono anche della libertà intellettuale e spirituale con la quale Dante affronta con disinvoltura – ai limiti dell’oltraggio all’odierno pudore – temi giudicati oggi di grande delicatezza, raccontandoci non soltanto del trascorrere dei tempi, ma anche qualcosa del nostro, di tempo. Efficaci certamente nel rievocare la gravità di ogni divisione, grande scisma o piccolo pettegolezzo che sia, come papa Francesco ha più volte avuto occasione di ricordare.
Fra le letture più curiose di questo canto – non fosse altro che per la collocazione – è quella data nel 1965 dallo scrittore Piero Bargellini dalle pagine de L’Osservatore della Domenica. La ripropongo di seguito integralmente, traendola dal n. 49 (Anno XXXIII, 5 dicembre 1965) del bel settimanale che fu della Città del Vaticano e dell’Italia intera, al prezzo di 50 lire. Ricorrevano allora i 700 anni – proprio oggi sono 755 – dalla nascita del Sommo Poeta, che si presume essere avvenuta il 29 maggio 1265.
***
La Divina Commedia narrata da Piero Bargellini
Seminatori di scismi
La nona bolgia, veduta dall’alto del ponte di pietra, sembra un vero carnaio e a tanto macello non si giungerebbe neppure mettendo insieme tutti gli uccisi nelle più sanguinose battaglie della storia. «Chi porria mai, pur con parole sciolte (cioè in prosa) / dicer del sangue e de le piaghe a pieno / ch’i’ ora vidi, per narrare più volte?». Dante ricorda così le battaglie combattute dai Romani contro i campani, gli Apuli, i Lucani e i Bruzi. Ricorda la seconda guerra punica. Poi dalle guerre romane passa a quelle medioevali, tra Bizantini e Roberto il Guiscardo; quella fra Angioini e Svevi, e infine la battaglia di Tagliacozzo, dove venne sconfitto e fatto prigioniero l’infelice Corradino di Svevia. Tutti gli uccisi e i feriti in queste battaglie non giungerebbe al numero dei dannati nella nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di scandali e di scismi. A capo di tutti non poteva mancare colui per colpa del quale il mondo si era diviso, come allora si diceva, tra fedeli e infedeli. Maometto, nato alla Mecca tra il 570 e il 580 dopo Cristo, morto a Medina nel 632, aveva fondato la nuova religione dell’Islamismo. Il suo Corano si era contrapposto al Vangelo, per quanto ne riflettesse, qua e là, alcuni motivi religiosi. Dante presenta Maometto diviso in due, come il profeta di Allah aveva diviso in due il mondo. Spaccato dal mento all’inguine, è simile ad un sacco squarciato, dal quale escono fuori le interiora, e s’intravedono gli organi, dal cuore (cordata) allo stomaco (sacco) e all’intestino, dove avviene l’ultima trasformazione del cibo in escremento. «Tra le gambe pendevan le minugia, / la corta pareva e ‘l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia».
Dante guarda attentamente quel corpo «dilaccato», cioè aperto e diviso, che il dannato apre ancora di più con le mani, dicendo il proprio nome. «Mentre che tutto in lui veder m’ attacco, / guardommi, e con la man s’aperse il petto, / dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco! / vedi com’è storpiato Maometto!”».
Alì e Dolcino
«Dinanzi a me sen va piangendo Alì, / fesso nel volto dal mento al ciuffetto», continua Maometto, mostrando il proprio cugino Ibn Alì Tabib, che sposando Fatima divenne genero del profeta. Nella storia dell’Islam la sua figura veniva subito dopo quella di Maometto, per quanto egli avesse operato uno scisma nell’interno dell’Islam stesso e fosse stato ucciso nel 661, in un attentato nella moschea di Kufa. Maometto stesso spiega a Dante come nella bolgia siano puniti i seminatori di scandali e di scismi, «fessi», cioè divisi perché suscitatori di discordie. «E tutti li altri che tu vedi qui / seminator di scandalo e di scisma / fur, vivi, e però son fessi così». Dopo aver spiegato come avvenga il ferimento dei dannati, da parte di un diavolo, che li «accisma», cioè taglia, Maometto domanda a Dante chi sia.
Gli risponde Virgilio, suscitando la curiosità di altri scismatici, i quali, in più di cento, si fermano a guardare quello strano visitatore, dimenticando il dolore delle ferite. Maometto, pensando che Dante dovrà tornare al monte, gli affida un messaggio per Dolcino, piccolo scismatico italiano, che chiama frate, ma che frate non fu mai. Dolcino Tornielli, di Novara, era il capo laico della setta degli «apostolici», sparsa nel Trentino e in Valsesia. Quando la neve lo ridusse alla fame, venne preso, nel 1307, per ordine di Clemente V, processato e bruciato. Il triste fatto era già accaduto quando Dante scriveva, ma il poeta finge che Maometto metta in guardia lo scismatico italiano. «Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi / sì di vivanda, che stretta di neve, / non rechi la vittoria al Noarese», cioè al vescovo di Novara, che lo catturò. Detto ciò, Maometto s’allontana, e Dante ne descrive mirabilmente il passo. «Poi che l’un pie’ per girsene sospese / Maometto mi disse esta parola; / indi a partirsi in terra lo distese».
Pier da Medicina
Ora è la volta d’un dannato, che forato nella gola, ha il naso e un orecchio tagliati. «Un altro, che forata avea la gola / e tronco il naso infin sotto le ciglia, / e non aveva mai ch’una orecchia sola». Il ferito riconosce Dante e, aprendo la canna della gola tutta rossa di sangue, si fa a sua volta riconoscere. «Rimembrati di Pier da Medicina, / se mai torni a veder lo dolce piano, / che da Vercelli a Marcabò dichina». Medicina era un castello al confine dell’Emilia, feudo dei Cattani, di cui Piero faceva parte. Dante lo pone tra i seminator di discordia, perché sostenitore degli Estensi e avversario di Bologna. Anche Pier da Medicina preannunzia un delitto già avvenuto quando Dante scriveva: l’uccisione, presso Cattolica, dei due migliori cittadini di Fano, per tradimento del «malvagio tiranno» Malatestino Malatesta. I due disgraziati vennero presi sulla nave, chiusi in un sacco, «mazzerati» e gettati in mare. Dante fa dire a Pier da Medicina, che Nettuno non vide mai nulla di simile, «tra l’isola di Cipri e di Maiolica», cioè nel Mediterraneo. Si chiamava Maiolica l’isola di Maiorca, dalla quale venivano le terraglie invetriate e decorate secondo il gusto arabo. Vicino a Pier da Medicina è un personaggio romano, Caio Curione, che non può parlare, perché ha la lingua tagliata. «Oh, quanto mi pareva sbigottito / con la lingua tagliata nella strozza / Curio, c’ha dire fu così ardito». Infatti Curione avrebbe convinto Cesare a marciare su Roma, fomentando così la discordia fra i Romani.
Cosa fatta capo ha
Le discordie fra Romani fan ricordare a Dante quelle fra i Fiorentini, divisi fra Guelfi e Ghibellini. Il motivo occasionale, a Firenze, della divisione era stato quello d’un fidanzamento rotto, tra l’avvenente Buondelmonte de’ Buondelmonti e una giovane della famiglia Amidei. I consorti degli Amidei, riuniti a consiglio, studiarono il modo di punire il giovane fedifrago. Ci fu chi propose una riparazione morale, con scuse pubbliche; chi propose una pena corporale; chi una pena pecuniaria. Mosca de’ Lamberti, invece, sostenne che bisognava punire il Buondelmonti con la morte, e suggellò la sua sentenza con le parole: “Cosa fatta capo ha”. Ora Dante lo vede nella bolgia dei seminatori di discordie con le braccia tagliate, ridotte a due moncherini. «E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, / levando i moncherini per l’aura fosca, / si che ‘l sangue faceva la faccia sozza, / gridò “Ricorderàiti, anche del Mosca, / che dissi, lasso: Capo ha cosa fatta, / che fu’ l mal seme per la gente tosca”». I Lamberti appartenne così, fin dalla origine, al partito ghibellino, e perciò furono cacciati da Firenze, nel 1258, e dieci anni dopo, dichiarati ribelli della Repubblica. Perciò Dante, dimostrandosi anche in questo caso di sentimenti guelfi, risponde pronto a Mosca, in modo da aggiungergli dolore morale al dolore fisico: «”E morte di tua schiatta” / perch’elli, accumulando duol al duolo, / sen gìo come persona triste e matta».
Bertram dal Bornio
Ora un altro dannato si presenta alla vista di Dante talmente diviso che il poeta teme di non esser creduto, descrivendo la sua mutilazione. Egli però sa di dire il vero e si sente sicuro sotto la corazza della buona coscienza. «Se non che coscienza m’assicura / la buona compagnia che l’om francheggia / sotto l’usbergo del sentirsi pura». La mutilazione che sembra incredibile è quella di un dannato, il quale cammina in mezzo agli altri con la testa mozza sorretta dalla mano. «Io vidi certo, ed ancor par ch’io ‘l vegga / un Busto sanza capo andar sì come / andavan li altri de la triste greggia. / E’ l capo tronco tenea per le chiome, / pésol con mano a guisa di lanterna: / e quel mirava noi, e dicea: “Oh, me!”». Il dannato usa la propria testa come una vera lanterna, sporgendola verso Dante, dal fondo della bolgia, verso il ponte. «Quando diritto a pie’ del ponte fue / levò ‘l braccio alto con la tutta la testa / per appressarne le parole sue (cioè per avvicinare le parole all’udito di Dante) / che fuoro: “Or vedi la pena molesta / tu che, spirando, vai veggendo i morti: / vedi s’alcuna è grande come questa”». Il dannato divise nel mondo il padre dal figlio, mettendoli l’uno contro l’altro. Infatti dice: «E perché tu di me novella porti, / sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli / che diedi al Re giovane i mai conforti». Enrico II, re d’Inghilterra, si era associato nel regno il primogenito, che si chiamava Enrico come lui e che perciò Dante dice «Re giovane». Bertram dal Bornio, visconte di Hautfort nella Guascogna, cortigiano e poeta provenzale, invice di contribuire alla concordia fra padre e figlio, eccitò quest’ultimo alla ribellione. Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva lodato il poeta per i suoi versi d’argomento cavalleresco, ma ora non può fare a meno di condannarlo come seminatore di discordia. Il dannato confessa la propria colpa, dicendo: «Io feci il padre e il figlio in sé ribelli», e spiega la ragione della sua mutilazione. «Perch’io parti’ così giunte persone, / partito porto il mio cerebro, lasso! / dal suo principio ch’è in questo troncone». Padre e figlio sono «giunte persone», cieè uniti strettamente, come sono uniti il cuore ed il cervello, cioè il sentimento e la volontà. Bertram dal Bornio divise nel mondo la volontà del padre dal sentimento del figlio, e per questo è punito ad avere il cerebro diviso dal cuore. È ancora e sempre la legge del contrappasso, che finalmente il dannato dichiara nell’ultimo verso del canto: «Così s’osserva in me lo contrappasso». Contrappasso, cioè patimento per quello che è stato fatto di male, in diversa forma, ma nello stesso senso.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.