Giovanni Paolo II è il nuovo Benedetto XVI, riferimento per Francesco e per i conservatori. Insieme all’ambiente, ai calvinisti e a Reagan. Alla ricerca di un orizzonte comune.
Diciamocelo, Giovanni Paolo II possiede un innegabile vantaggio su Benedetto XVI: l’appartenere più al passato che non al presente. Non perché obsoleto, bensì perché in possesso dello stesso vantaggio della santità: quello secondo il quale non esistono santi – e simboli – viventi. Molto (ed è un dono) è invece ancora possibile fare, dire e scrivere al Pontefice emerito. Tanto che, dopo la vicenda del libro che si è detto scritto a quattro mani con il card. Robert Sarah, l’improvvisa sovraesposizione mediatica, insieme alla percezione o al timore che il pensiero di Benedetto XVI sia potenzialmente oggetto di strumentalizzazione da parte di alcuni ambienti di Curia, ne ha in parte ridotto l’incisività. Forse serve considerare anche questa dinamica per comprendere la simultanea ricerca, nelle ultime settimane, di una nuova personalità di riferimento nella storia della Chiesa, presa a modello dagli opposti schieramenti, complice anche l’imminente centenario dalla nascita: Giovanni Paolo II.
Di Wojtyla è tornato a parlare recentemente papa Francesco, anticipando l’uscita del libro San Giovanni Paolo Magno (Ed. San Paolo), nelle librerie dal prossimo 11 febbraio. Una lunga intervista all’attuale Pontefice a cura di don Luigi Maria Epicoco, sacerdote aquilano e docente di filosofia alla Pontificia Università Lateranense e all’ISSR dell’Aquila, che pone al centro il rapporto di Bergoglio con il primo Papa non italiano dopo quasi cinquecento anni, e in particolare la vicinanza su numerosi temi. Non da ultimo, il celibato ecclesiastico. «Convinto – spiega Francesco nel volume – che il celibato sia un dono, una grazia e, camminando nel solco di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, io sento con forza il dovere di pensare al celibato come a una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa cattolica latina». Una «sintonia» con il Pontefice polacco che era valsa all’allora arcivescovo di Buenos Aires l’essere «percepito come un conservatore». Una posizione già contestata da un altro libro sul pontefice polacco, Chi ha paura di Giovanni Paolo II? Il Papa che ha cambiato la storia del mondo (Giacomo Galeazzi-, Gian Franco Svidercoschi, Rubbettino ed.), che vanta la prefazione del card. Stanislao Dziwisz. Ma anche una posizione sorprendente, se si pretendesse di comprendere la figura di Francesco basandosi esclusivamente sulla produzione mediatica dei suoi detrattori. Sorprendente almeno tanto quanto il preteso arruolamento di Giovanni Paolo II nel fronte politico nazional-conservatore.
È il tentativo, macroscopico, del convegno della National Conservative Conference tenutosi due giorni fa a Roma. Emblematico il titolo: “Dio, onore, patria: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”. Ente promotore la Fondazione Edmund Burke, gruppo conservatore fondato nel 2019 e di base all’Aia, nei Paesi Bassi, ma dalla forte matrice statunitense. L’evento ha costituito una curiosa occasione di confronto su un tema di per sé interessante: la sinergia fra il presidente statunitense Ronald Reagan e papa Giovanni Paolo II che avrebbe condotto alla sconfitta del Comunismo, al ristabilimento dell’indipendenza delle nazioni, dell’autodeterminazione e della libertà religiosa nell’Europa orientale dopo il 1989. Nel mirino, però, c’è l’Europa di oggi – «Esamineremo il destino dell’indipendenza nazionale, dell’autodeterminazione e della libertà religiosa sotto le leggi dell’Unione Europea», scrivevano gli organizzatori prima del convegno – ma anche papa Francesco.
Singolare è la composizione del panel dei relatori. Ad essere rappresentato, infatti, voleva essere il presente ma soprattutto il futuro del conservatorismo nazionale a livello europeo e mondiale. Vale a dire, per semplificare, l’ala destra del movimento conservatore, tutto (o quasi) identità nazionale e proprietà privata. Ma sempre più palesemente alla ricerca di una legittimazione religiosa, come sempre più spesso si dimostra sulle due sponde dell’Atlantico. Un orizzonte a cui e in cui unirsi. E, in effetti, il tema religioso non è mancato nel convegno, dalle posizioni del tradizionalismo cattolico, al calvinismo del primo ministro ungherese Viktor Orbàn (il calvinista più potente del mondo, dicono alcuni, ma con moglie cattolica), l’ortodossia russa dello scrittore americano Rod Dreher, fino all’ebraismo di Yoram Hazony e allo schietto ateismo (soprattutto nei fatti) di molti. E sebbene l’ecologia non sia una religione, ma molto gli è fatta assomigliare negli ultimi anni, vale la pena ricordare almeno l’intervento in questo senso di Marion Maréchal, nipote di Jean-Marie e Marine Le Pen, la “Greta Thunberg” della destra internazionale.
Eterogenea anche la scelta degli ospiti italiani, nonostante il forfait dell’atteso Matteo Salvini: si va dalla Giorgia Meloni di «sono donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana» (per inciso, tutte virtù), agli storici Marco Gervasoni e Roberto de Mattei, quest’ultimo presidente della Fondazione Lepanto e direttore di Radici Cristiane, da Maria Giovanna Maglie, giornalista di Dagospia, al giovane Francesco Giubilei, presidente della Fondazione Tatarella. Entità e personalità fra le quali non è difficile individuare una vicinanza all’orbita del nazionalismo statunitense e di Steve Bannon.
E poi c’era la Polonia. Con l’ambasciatrice a Roma e senatrice Anna Maria Anders, e il filosofo e parlamentare europeo Ryszard Legutko, presidente del gruppo dei conservatori (Ecr) a Strasburgo. Ma soprattutto con Giovanni Paolo II. Di lui si vuole ricordare, giustamente, l’amore viscerale per la patria, plasmato da decenni di dolore e di violenza. Ma si sottovaluta, probabilmente, che la patria che stava a cuore a Wojtyla non è quella delle cortine di ferro, bensì quella in grado di aprirsi al mondo. E che di conseguenza nulla ha da spartire con barriere di filo spinato e muri, rigorosamente (non siamo ingenui) bipartisan.
Scriveva nel 1974 il poeta che sarebbe divenuto papa in una poesia intitolata Pensando patria: «Quando penso “Patria” esprimo me stesso, affondo le mie radici, è voce del cuore, frontiera segreta che da me si dirama verso gli altri, per abbracciare tutti, fino al passato più antico di ognuno: da questo emergo quando penso “Patria” – quasi celando dietro di me un tesoro. Mi chiedo come accrescerlo, come dilatare lo spazio che esso riempie». La Polonia, unica terra di origine possibile per Wojtyla e straordinariamente amata, eppure simbolo del “passato antico” di ogni popolo, riflesso di tutte le patrie, che da pontefice Giovanni Paolo II avrebbe in seguito incontrato nei numerosi viaggi apostolici. «Frontiera segreta che da me si dirama». Nota chiarissima (e sempre più attuale) di un pontificato. E magari spunto di riflessione per l’elaborazione di un pensiero che veda nelle radici di tutti noi non un ostacolo, né una barriera, talvolta autoimposta, ma propaggini di apertura verso il prossimo. Come a dire: nulla di male ad essere conservatori, l’importante è cosa – e come – si intende conservare.
© La riproduzione integrale degli articoli richiede il consenso scritto dell'autore.