Cristoforo Colombo, il Servo di Dio conteso fra cattolici e illuministi che ora non vuole più nessuno

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Navigatore ed esploratore. Conquistador (che non fu). Ma anche uomo di fede, riconosciuto Servo di Dio. Oppure nemico delle superstizioni, come lo vollero gli illuministi. Lui, che adesso non vuole più nessuno.

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Su Cristoforo Colombo, nelle ultime settimane, si è provato a fare l’impossibile: affrontare in poche parole, con la pretesa di comprenderla, una delle pagine più complesse della storia dell’umanità. Complessa almeno tanto quanto l’incontro-scontro fra due mondi che fino ad allora erano vissuti separati sullo stesso mondo. Inevitabile il finire col parlarne superficialmente, quando non basterebbero biblioteche intere per tenere traccia delle implicazioni di questo evento – culturali, sociali, economiche, belliche, religiose, geografiche, scientifiche, politiche, giuridiche: in due parole storiche e umane.

Eppure si è provato a farlo ugualmente, scadendo nell’ideologia, nel campanilismo e spesso nel paradosso. A San Francisco la sua statua viene rimossa perché rappresenta schiavitù, sottomissione e conquista. A Chicago e in altre città degli Stati Uniti membri delle comunità italiane organizzano turni di guardia ai monumenti, considerati patrimonio del Paese. Mentre da Genova il sindaco Marco Bucci affida a Facebook il suo orgoglio per quella che definisce «un’autentica risorsa per la civiltà europea e poi per quella americana, un leader coraggioso». E sarebbe certamente d’accordo Donald Trump, che dal comizio (semideserto) di Tulsa con invidiabile tempismo ama e ringrazia l’Italia, anche per Cristoforo Colombo. C’è, invece, chi se la prende con le società precolombiane, tutt’altro che l’idillio bucolico che spesso viene dipinto: pagane come può esserlo chi pratica i sacrifici umani, violente ben prima dell’arrivo degli europei e dedite esse stesse alla guerra e alla schiavitù. Tutto vero.

E quindi? E quindi Cristoforo Colombo, il grande ponte che permise l’incontro fra due mondi, visse e vive da sempre di paradossi. Certa storiografia nordamericana è riuscita a farne un mostro, che Jennings arriva a paragonare ad Attila e a Hitler. Alcune ricostruzioni storiche di matrice protestante, poi, ne accrescono gli orrori, avendo in antipatia il predominio della Spagna “cattolica” al tempo della scoperta dell’America e della successiva colonizzazione. Dal canto suo, l’Illumismo ne vanta la – presunta – modernità in chiave anti-medievale e, in ultima analisi, anti-cristiana: un vero e proprio triomphe de la raison sulle superstizioni.

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Anche la Chiesa, naturalmente, guarda da sempre con interesse a Cristoforo Colombo. È lui stesso, in verità, ad annodare saldamente la propria impresa alla fede cristiana, facendo di se stesso “portatore di Cristo” e strumento della Provvidenza. Poco conosciute, infatti, sono le ragioni interiori che tracciano la rotta della sua vita. Nella Bibbia, il navigatore genovese crede di trovare tracce del proprio viaggio, tanto quanto di stare scrivendo l’ultimo capitolo della storia sacra, in vista della riconquista di Gerusalemme e del ritorno di Cristo. Convinzioni affidate in età matura al suo Libro delle profezie, scritto forse insieme al monaco certosino Gaspar Gorricio. Ma la preoccupazione per la fede – propria e altrui – emerge già dal diario di bordo compilato nel 1492. Dopo il primo incontro con i nativi americani, il 12 ottobre, Colombo annota: «Conobbi che era gente che meglio si salverebbe e si convertirebbe alla nostra santa fede con l’amore che con la forza». Anticipando di anni lo stile di Bartolomé de Las Casas e di molti altri.

Terziario francescano, Cristoforo Colombo è riconosciuto Servo di Dio e confessore della fede. Addirittura uno degli apostoli della pastorale degli emigrati italiani, mons. Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, all’inizio del secolo scorso arriva a caldeggiarne la beatificazione. A ben pensarci, non sorprende che da più parti si pretenda di farne il capro espiatorio di tutto il male venuto dopo la scoperta. Neanche il Cristoforo Colombo in crisi di coscienza del dramma di Paul Claudel avrebbe osato tanto, guardando, come in una visione, allo sterminio dei popoli e alle schiavitù dei secoli futuri.

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Nonostante le terribili violenze che gli spagnoli (e non solo) compirono nelle terre d’America, «allettati dalla facilità dell’occuparle e dalla ricchezza della preda» – come scrisse uno dei maggiori storici del Rinascimento, Francesco Guicciardini – l’impresa di Cristoforo Colombo – la sua – rimane «maravigliosa». Perché, al di là dei suoi evidenti limiti e degli interessi di parte, è indubbio il contributo che ne venne alla conoscenza del mondo e alla scienza, sfatando errori antichi e agevolando la diffusione della fede cristiana, stimolando persino un rinnovato impegno nell’accostarsi alla Parola di Dio e creando «qualche anzietà agli interpreti della Scrittura Sacra». Fino a porre – contro ogni apparenza – le basi dell’espansione del diritto e della dignità umana. E lui, il Cristoforo Colombo tratteggiato dal poeta romanesco Cesare Pascarella, quello ch’aveva superato, / ridenno, li più boja tradimenti / der mare, de la terra, de li venti, / coll’omo ce rimase massagrato!

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