Sono trascorsi 25 anni dal documento “Ero forestiero e mi avete ospitato”. Oggi, con la lettera “Comunità accoglienti. Uscire dalla paura” la Commissione episcopale per le migrazioni della Cei riprende gli stimoli di allora. Che furono anche di Giovanni Paolo II e segnarono l’avvento delle migrazioni come fatto di Chiesa.
Negli ultimi 25 anni molte cose sono cambiate nella mobilità, nella società e nella Chiesa in Italia. Nel 1993 la delusione di Italia ’90 era ormai sbiadita, mentre negli occhi erano ancora vive le immagini dello sbarco di 20 mila albanesi al porto di Bari di due anni prima. L’immigrazione straniera, impostasi da almeno un ventennio nel nostro Paese, era ancora qualcosa di nuovo nell’attenzione dell’opinione pubblica e di gran parte delle autorità. Fra le prime ad accorgersene la Chiesa, convinta da decenni di emigrazione italiana ad approcciarsi al fenomeno della mobilità con occhi nuovi, al di là di concezioni di carattere economico, lavorativo, sanitario e di ordine pubblico.
Gli orientamenti pastorali per l’immigrazione “Ero forestiero e mi avete ospitato” diffusi il 4 ottobre 1993 dalla Commissione ecclesiale per le migrazioni della Cei segnano, da questo punto di vista, uno storico mutamento di prospettiva. Per la prima volta in Italia la pastorale migratoria si impone sulla retorica politica e il documento segna il passaggio da un’integrazione concepita come assistenziale ad una di tipo ecclesiale dei migranti, in special modo cattolici.
Sin da allora la realtà dei fatti suggerisce che continuare ad intendere le migrazioni soltanto come un’emergenza temporanea alla quale reagire con misure altrettanto precarie è un approccio destinato al fallimento. Riprendendo le pagine del documento “Ero forestiero e mi avete ospitato” ci si avvede di come sin da allora la mobilità vi appaia come «una delle più vive preoccupazioni della Chiesa».
Scorrendo i titoli dei capitoli del documento appare evidente come i punti di partenza rimangano la conoscenza e l’accoglienza delle migrazioni, da leggere e interpretare alla luce della Parola di Dio. Nella pastorale della Chiesa, da fare per e con gli immigrati, si uniscono evangelizzazione e promozione umana. Il futuro, nel “segno dei tempi” rappresentato dalle migrazioni, non può quindi che orientarsi con speranza a giustizia, solidarietà e missionarietà verso un cielo nuovo e una terra nuova. Una prospettiva che 25 anni dopo «richiede innanzitutto uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno».
«La presenza di questi fratelli nei Paesi di antica cristianità – scrive nel 1990 Giovanni Paolo II nella “Redemptoris missio” – è una sfida per le comunità ecclesiali, stimolandole all’accoglienza, al dialogo, al servizio, alla condivisione, alla testimonianza e all’annunzio diretto». Il suo richiamo risuona oggi nella lettera alle comunità cristiane “Comunità accoglienti. Uscire dalla paura” diffusa nelle scorse ore dalla Commissione episcopale per le migrazioni (CEMi) della Conferenza episcopale italiana a 25 anni da “Ero forestiero e mi avete ospitato” (1993-2018).
Le differenze fra i due documenti – a cominciare da quella che passa fra degli orientamenti pastorali strutturati in sei capitoli e 41 punti e una lettera di sei punti – sono le medesime che intercorrono fra l’immigrazione che coinvolge la Penisola nel 1993 e quella attuale. Se allora gli stranieri regolarmente presenti in Italia erano poco meno di un milione, originari per la maggior parte dell’Unione Europea e dell’Europa orientale (36,85%), gli ultimi dati mostrano una presenza che oggi si attesta sui 5 milioni di stranieri regolarmente residenti in Italia, con un’incidenza sulla popolazione totale pari all’8,3%. Anche l’origine degli immigrati racconta oggi una storia diversa, con cinque Paesi – Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina – che da soli contano oltre il 50% dei migranti.
A colpire, però, sono anche – e forse ancora di più – le similitudini che accostano lo scenario di 25 anni fa a quello attuale. A cominciare dal «rischio reale che tanti italiani valutino il vasto fenomeno immigratorio a partire da alcune situazioni estreme, in base, pertanto, a una visione parziale e spesso distorta. A questa visione, poi, concorrono non poche volte gli stessi mezzi di comunicazione sociale quando, con servizi sensazionalistici, tendono a enfatizzare fatti di cronaca nera».
Il futuro di allora, al quale si intende guardare «con lucidità e coraggio apostolico», è il presente di oggi. «Lentezze e ritardi nell’affrontarlo comporterebbero gravi conseguenze per la società civile e per la stessa Chiesa». Ispirandosi alla dottrina sociale e agli interventi di Giovanni Paolo II in materia, nel 1993 si ribadisce il «diritto di migrazione», che si accompagna alla «realistica costatazione» che, citando le parole di Giovanni Paolo II, «i Paesi sviluppati non sono sempre in grado di assorbire l’intero numero di coloro che si avviano all’emigrazione». Una consapevolezza che, però, «non può chiudere fatalisticamente il discorso sulle miserie della povera gente, ma lo deve aprire […] con una duplice proposta»: condividere le proprie risorse con l’umanità nel bisogno, creando effettive possibilità di sviluppo nei Paesi di origine, e rivedere, da parte dei Paesi occidentali, i propri standard di vita.
Venticinque anni dopo, nella lettera “Comunità accoglienti. Uscire dalla paura”, il primo diritto è ancora «quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra», così come è sempre più chiaro «che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose».
L’immigrazione, però, si offre anzitutto come una sfida pastorale ed educativa, tanto per i migranti quanto per le comunità di accoglienza. Secondo le stime più recenti della Fondazione ISMU, infatti, gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio dello scorso anno professano in maggioranza la religione cristiana ortodossa (oltre 1,6 milioni, +0,7%). I musulmani (1,4 milioni, -0,2%) – in calo – si attestano al secondo posto, seguiti dai cattolici (poco più di 1 milione, -0,1%). Tenendo conto anche di quanti professano altre confessioni cristiane, quindi, dei 5 milioni di immigrati stranieri regolarmente presenti in Italia oltre la metà è cristiana.
Allora come oggi, perciò, la risposta alle migrazioni non può essere la paura. Talvolta legittima e basata su dubbi comprensibili, ma alla quale non è possibile permettere di condizionare «le nostre risposte, […] le nostre scelte, […] il rispetto e la generosità», permettendo che nell’ombra si «alimentino l’odio e il rifiuto». Malerbe che prosperano sul terreno fertile dell’ignoranza.
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1 commento su “Comunità accoglienti. Se la Chiesa “in uscita” esce anche dalla paura”