Come nel gioco delle bocce, ciò che conta sono il pallino e il campo. E il loro continuo mutamento.
«Vi confesso che il gioco delle bocce mi è molto simpatico». Il riferimento di papa Francesco, all’udienza concessa ai rappresentanti della Federazione Italiana Bocce, rischia di rimanere una breve nota a margine fra l’apertura dell’Anno Santo e le dichiarazioni sulla ripetuta «crudeltà» delle azioni militari del governo di Israele in Medio Oriente. E sarebbe un peccato, perché fare qualche lancio è utile per riflettere sullo stato della partita globale.
Una chiave filosofica, va detto, che non appartiene esplicitamente al Santo Padre. Colpa, forse, di quella sua diffidenza nei confronti della sfera: non un modello, sociale o pastorale che sia, – scrive nell’Evangelii gaudium (n. 236) – perché «non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro». È da preferirle invece «il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità».
Nondimeno, nella memoria di papa Francesco le bocce incarnano «un certo tipo di socialità, di amicizia sociale». Di vivere sociale. Né si può negare che «la società è cambiata, e così pure lo sport delle bocce» ha fatto propri, almeno in parte, questi mutamenti.
Pallino mobile
Al pari di altri sport, le bocce possono essere interpretate come una metafora della vita, del viaggio per perseguire un obiettivo: in questo caso, il “pallino”. Un cammino fatto di scelte, di sfide, di imprevisti, ma anche dell’armonia che si disegna nella combinazione dell’agire individuale e collettivo in un campo che non possiamo né scegliere né controllare del tutto. Se ogni lancio è un atto di volontà, misurato e strategico, porta infatti con sé anche un tratto di incertezza.
Non si tratta, certo, di un’immagine originale. A rendere più interessante la metafora è piuttosto il fatto che nelle bocce il pallino non è mai statico: si sposta in base alle stategie, a successi ed errori, agli imprevisti. Come nella vita, ciò che per un momento sembra definitivo può in un attimo cambiare assetto, sfuggire alla nostra portata oppure avvicinarsi inaspettatamente, a volte proprio quando meno ce lo aspettiamo.
Ma non è tutto. La nostra stessa visione del pallino – dell’obiettivo, non dimentichiamolo, che può essere quello di una vita – può evolversi, mutare. Il normale processo di crescita e maturazione ci porta a modificare le nostre percezioni del mondo e di ciò che è importante. Il matrimonio, la nascita di un figlio, nuovi progetti, una malattia o una perdita possono cambiare drasticamente le nostre priorità.
Ancora di più, le numerose crisi che feriscono l’umanità, anzitutto quella antropologica, più profonda e subdola di altre, ci richiamano a un cambiamento radicale del “pallino” cui stiamo cercando di accostarci, come singoli e come comunità.
Abbiamo superato il tempo del cambio di passo, per inaugurare quello del mutamento di paradigma. È necessario rallentare sino a fermarci per cogliere finalmente l’urgenza di variare prospettiva, di adeguare il nostro sguardo a un modo nuovo di interpretare noi stessi e gli altri. È tempo di riorientare i nostri passi verso ciò che è immutabile: il passato alla misericordia, il presente alla verità e il futuro a quella lungimiranza profetica che solo la speranza può dare.
Un campo mutevole
Uscire da una visione incentrata sulla propria vita, individuale e materiale, apre alla consapevolezza che ogni boccia che rotola non segue una traiettoria isolata. Ciascuna di esse entra in relazione con le altre, in termini di posizione, direzione e impatto sul gioco. Così accade anche nella vita, dove la volontà dei singoli non esiste nel vuoto, ma si esprime soltanto nell’incontro con gli altri – e per taluni con l’Altro: ogni azione che compiamo, ogni nostra scelta, ha un effetto, talvolta diretto, in altri casi impercettibile.
Come spiegare, se non in questi termini, la crescente complessità della partita che stiamo giocando – o a cui stiamo assistendo – a livello globale? Abbiamo corso per raggiungere il progresso, ma abbiamo finito con il lasciare indietro noi stessi. Bocce che rotolano. Speravamo di aver abbandonato nel secolo scorso la selezione della vita e l’eliminazione dei più vulnerabili in nome dell’ideologia, ma abbiamo soltanto mutato nome e abito ai vecchi orrori per renderli più accettabili. Altre bocce.
Credevamo di aver scovato il terrorismo nei cosiddetti “clandestini” che ci raggiungono dall’esterno, ma lo abbiamo scoperto nel cuore dei giovani nati nell’Europa secolarizzata, figlio dell’esclusione e della mancanza di valori più che della migrazione. Eccole di nuovo, bocce che cambiano posizione. La recente strage di Magdeburgo ci dice che neppure la vecchia coincidenza fra islam radicale e attentati contro i cristiani è più scontata, se anche un militante antimusulmano di estrema destra può fare strage ai mercatini del Natale. Per non parlare delle discriminazioni subite dai cristiani in Medio Oriente ad opera del governo di Israele.
La società si costruisce e perdura sul bel gioco silenzioso della maggioranza. Anzi, su questo si fonda. Ma a fare tristemente da modello sono soprattutto gli urti rumorosi delle bocce più nefaste. Anche in questo, il tempo è nostro compagno di viaggio, e sebbene non possiamo controllarlo, possiamo decidere come viverlo, come usarlo a beneficio nostro e degli altri, adattarci ad un ritmo che può forse esserci proprio, ma che mai ci appartiene. Finiremo con l’accorgerci che la nuova guerra mondiale a pezzi è combattuta dentro le nostre fratture, prima ancora che attorno a noi. Buon gioco.
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