Nei propri viaggi in Cile e Perù, rispettivamente il 16 gennaio 2018 e il 2 febbraio 1985, Francesco e Giovanni Paolo II hanno affrontato un medesimo tema: le beatitudini. Più di trent’anni di mezzo, ma molti i punti in comune.
Ogni viaggio apostolico dice di occasioni di incontro, prevedibili fuoriprogramma, immagini iconiche, incidenti e polemiche. Ma anche di momenti in grado di unire popoli e pontificati lontani fra loro. È accaduto in questi giorni con i celebri passi evangelici di Mt 5,1-12 e Lc 6,20-23, universalmente noti come beatitudini o Discorso della Montagna, al centro di due riflessioni che legano i viaggi apostolici di Giovanni Paolo II e Francesco in Perù e Cile. Ad oltre trent’anni di distanza fra i due interventi è infatti possibile percepire più di un’armonia.
L’omelia della Messa celebrata lo scorso martedì 16 gennaio al Parque O’Higgins di Santiago del Cile, come nello stile di Francesco, muove dall’incontro. «Vedendo le folle, Gesù incontra il volto della gente che lo seguiva e la cosa più bella è vedere che la gente, a sua volta, incontra nello sguardo di Gesù l’eco delle sue ricerche e aspirazioni. Da tale incontro nasce questo elenco di beatitudini che sono l’orizzonte verso il quale siamo invitati e sfidati a camminare», sottolinea il Pontefice. Più di trent’anni prima, il 2 febbraio 1985, anche Giovanni Paolo II si trova ad affrontare il medesimo passo evangelico in occasione della Messa con i giovani celebrata nell’ippodromo di Monterrico di Lima. Anche allora l’incontro – un doppio incontro – è motore dell’appuntamento: quello di Cristo con le folle, ma anche quello del Papa con i giovani peruviani, «tanto desiderato».
Un medesimo imperativo all’azione accomuna le due omelie, sulle orme di quella «positiva rivoluzione» individuata nelle beatitudini anche da Paolo VI. Queste costituiscono per Giovanni Paolo II «un programma di vita fatto a misura dei giovani». Gli fa eco Francesco, secondo il quale «le beatitudini non nascono da un atteggiamento passivo di fronte alla realtà, né tantomeno possono nascere da uno spettatore che diventa un triste autore di statistiche su quanto accade. Non nascono dai profeti di sventura che si accontentano di seminare delusioni. Nemmeno da miraggi che ci promettono la felicità con un “clic”, in un batter d’occhi. Al contrario, le beatitudini nascono dal cuore compassionevole di Gesù che si incontra con il cuore compassionevole e bisognoso di compassione di uomini e donne che desiderano e anelano a una vita beata». Di fronte alle numerose difficoltà dell’esistenza umana – «lo smarrimento e il dolore che si genera quando “trema la terra sotto i piedi” o “i sogni vengono sommersi” e il lavoro di tutta una vita viene spazzato via», ricorda Francesco – si fa chiara nella parole di Giovanni Paolo II la consapevolezza che «solo in Cristo si trova la risposta ai desideri più profondi del […] cuore, alla pienezza di tutte le […] aspirazioni».
Due Paesi, Perù e Cile, dalla storia complessa. Nel 1985 il primo si presenta agli occhi di Giovanni Paolo II come bisognoso di fraternità, di riconciliazione e di giustizia, un Perù che si auspica «senza violenza, che è sempre anticristiana». A quasi 12 anni dalla morte di Pinochet il Cile che accoglie Francesco è tutt’altro che pacificato, ma forte di un cuore «esperto […] di ricostruzioni e di nuovi inizi» e abile nel «rialzarsi dopo tanti crolli». Per questo la “rivoluzione” delle beatitudini non può limitarsi alla contestazione. «Le beatitudini non nascono da atteggiamenti di facile critica né dagli “sproloqui a buon mercato” di coloro che credono di sapere tutto ma non vogliono impegnarsi con niente e con nessuno, e finiscono così per bloccare ogni possibilità di generare processi di trasformazione e di ricostruzione nelle nostre comunità, nella nostra vita. Le beatitudini nascono dal cuore misericordioso che non si stanca di sperare. E sperimenta che la speranza “è il nuovo giorno, lo sradicamento dell’immobilità, lo scuotersi da una prostrazione negativa” (Pablo Neruda, El habitante y su esperanza, 5)».
Un giudizio anticipato da Giovanni Paolo II, secondo il quale «la misericordia non è passività, ma azione decisa in favore del prossimo che nasce dalla fede». Di più, «la visione del mondo e della vita che ci dà il Vangelo e che ci spiega la dottrina sociale cattolica, spinge all’azione costruttiva molto più di qualunque ideologia». È questa con la consapevolezza che nel 1985 fa dire a Wojtyla che «non è questo il momento per indecisioni, assenze o mancanze di impegno. È l’ora degli audaci, di coloro che hanno speranza, di coloro che aspirano a vivere con pienezza il Vangelo e di coloro che vogliono realizzarlo nel mondo attuale e nella storia che si avvicina».
Trent’anni dopo, alla prese con un mondo che è profondamente cambiato ma che al tempo stesso sembra non cambiare mai, Francesco riafferma il Cristo come unico motore del vero mutamento. «Gesù, dicendo beato il povero, colui che ha pianto, l’afflitto, il sofferente, colui che ha perdonato…, viene a sradicare l’immobilità paralizzante di chi crede che le cose non possono cambiare, di chi ha smesso di credere nel potere trasformante di Dio Padre e nei suoi fratelli, specialmente nei suoi fratelli più fragili, nei suoi fratelli scartati. Gesù, proclamando le beatitudini viene a scuotere quella prostrazione negativa chiamata rassegnazione che ci fa credere che si può vivere meglio se evitiamo i problemi, se fuggiamo dagli altri, se ci nascondiamo o rinchiudiamo nelle nostre comodità, se ci addormentiamo in un consumismo tranquillizzante. Quella rassegnazione che ci porta a isolarci da tutti, a dividerci, a separarci, a farci ciechi di fronte alla vita e alla sofferenza degli altri. Le beatitudini sono quel nuovo giorno per tutti quelli che continuano a scommettere sul futuro, che continuano a sognare, che continuano a lasciarsi toccare e sospingere dallo Spirito di Dio».
Di fronte a vecchie e nuove minacce armate, in entrambe le omelie acquistano particolare valore gli operatori di pace, non soltanto per l’edificazione di un Cile e di un Perù nuovi, ma anche di un mondo migliore. «Vincendo il male col bene, cercando ciò che unisce e non ciò che divide, il positivo e non il negativo, per “possedere così la terra” e costruire in essa la “civiltà dell’amore”», sottolinea Giovanni Paolo II. «Felici quelli che sono capaci di sporcarsi le mani e lavorare perché altri vivano in pace», conferma tre decenni dopo Francesco, pontefice di una Chiesa che si trova a vivere nuovamente all’ombra della minaccia nucleare. «Felici quelli che si sforzano di non seminare divisione». Una cosa per la quale non servono bottoni, grandi o piccoli che siano, spesso inversamente proporzionali agli uomini che ci stanno dietro.
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