Amtskirche. “Chiesa istituzionale”, ufficiale, gerarchica, ma che forse acquista il senso più profondo come di una “Chiesa funzionariale” e di funzionari. È il termine scelto dal pontefice emerito Benedetto XVI per riferirsi ad una Chiesa ripiegata su se stessa, ingabbiata in una molteplicità di vincoli pratici, spesso autoimposti, nella recente intervista realizzata con Herder Korrespondenz.
Che il Papa emerito torni a far udire pubblicamente la propria voce è già di per sé una notizia, nella progressiva rarefazione di queste preziose occasioni. Anche se avviene per iscritto, tanto per motivi logistici quanto perché Benedetto XVI «rimane uomo di penna, non di gesti plateali o di parole spontanee». Che poi lo faccia proprio in riferimento alla Chiesa cattolica in Germania ha dell’esplosivo, in termini di conoscenza della situazione e della cultura locali e di portata. Tanto più se si tratta – com’era naturale attendersi – di un’evidente sponda alla linea portata avanti, con altro stile, modi e linguaggi, da papa Francesco in Germania. Evidente da anni, come sistematicamente riferito da queste pagine.
Leggendo integralmente le sei pagine dell’intervista si è proiettati agli inizi del lavoro pastorale del giovane Joseph Ratzinger, allora 24enne, alla fine dell’estate 1951 incaricato della comunità di Heilig Blut a Bogenhausen, un quartiere borghese di Monaco Est. Molta strada, ancora, prima di diventare uno dei pontefici più incisivi, e per questo anche più criticati, della storia recente.
Un cammino che attraversa il dubbio personale e comunitario, i differenti modi di intendere la religione, la passione per la fede che si fa pratica di vita («Per esempio la preparazione alla Prima Comunione», scrive Ratzinger), lo studio ma anche l’irrealismo di una fede confinata alla teoria, la timidezza personale e le tentazioni del mondo accademico, il lavoro fra i giovani come insegnante, i momenti di pace spesso affidati al confessionale, scoprendo «il bisogno e la bellezza di questo servizio». E poi gli anni terribili dell’affermazione del nazionalsocialismo e dell’anticristianesimo in Germania, con gli omicidi del gesuita Alfred Delp e di Herman Joseph Wehrle, sacerdote dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga. «Due forti testimoni di fede e di umanità».
Benedetto XVI non fa esplicito riferimento all’attuale condizione della Chiesa cattolica in Germania, ma il suo rievocare fenomeni e tendenze storiche è sufficiente a stabilire una connessione. «La mia esperienza nell’anno di Bogenhausen mi aveva mostrato che molte delle strutture e funzioni rilevanti della vita nella Chiesa erano svolte da persone che non condividevano affatto la fede della Chiesa. Quindi la testimonianza doveva apparire discutibile in molti modi. Fede e incredulità erano mescolate insieme in un modo strano, e questo doveva venire fuori ad un certo punto e causare un crollo che alla fine avrebbe seppellito la fede», spiega con grande lucidità Benedetto XVI. Ricorda nulla?
«La separazione era necessaria, mi sembrava. Tuttavia, non si poteva e non si doveva pensare ad una Chiesa “di santi”: che questo pensiero ricorrente nella storia sia un falso sogno che la realtà sempre immediatamente smentisce mi è diventato particolarmente chiaro nei miei studi agostiniani sul donatismo», un movimento scismatico nella Chiesa nordafricana del IV e V secolo, orientato al rigore, al pauperismo e all’elitarismo, osteggiato da Agostino.
A quel tempo, spiega Benedetto XVI, si va affermando l’idea che «all’ufficio di vescovo devono essere ammesse solo le persone […] senza alcuna macchia. Questa idea iniziale ha poi spinto il gruppo sempre più verso il settarismo e ha dimostrato per sempre che la Chiesa include grano e pula, pesce buono e pesce cattivo. Quindi non potrebbe trattarsi di separare il bene e il male l’uno dall’altro, ma potrebbe trattarsi di separare credenti e non credenti».
Ratzinger non ne fa, per l’appunto, una questione di suddivisione elitaria, fra buoni e cattivi, ma di profonda opportunità pratica e verità. «Da allora, questo problema è diventato sempre più evidente. Nelle istituzioni ecclesiali – ospedali, scuole, Caritas – lavorano molte persone in posizioni chiave che non sostengono la missione interna della Chiesa e che quindi spesso oscurano la sua testimonianza. Soprattutto, questo riguarda le dichiarazioni pubbliche», spiega Benedetto XVI. Un abissale problema di coerenza e di formazione ancora ignorato, se non addirittura misconosciuto.
Ciò è tanto più evidente, al di là di specifici casi e stili personali, nell’annosa contrapposizione fra una supposta Chiesa gerarchica e una reale, fra un Vangelo della teoria e uno della pratica, fra dottrina e pastorale, fra la Chiesa di Benedetto XVI e quella di Francesco. «Il termine “Chiesa istituzionale” [Amtskirche] è stato creato per esprimere il contrasto tra ciò che è ufficialmente richiesto e ciò che si crede personalmente. Il termine Amtskirche insinua un’intima contraddizione tra ciò che la fede realmente vuole e significa e la sua spersonalizzazione», evidenzia Benedetto XVI. «In questo senso, devo ammettere che il termine Amtskirche si applica effettivamente a gran parte dei testi ecclesiastici ufficiali in Germania». Con risultati evidenti.
«Finché nei testi ufficiali della Chiesa parlerà solo l’istituzione, ma non il cuore e lo spirito, l’esodo dal mondo della fede continuerà», prevede Benedetto XVI. Testimonianza, anzi testimoni, contro l’emorragia di fede e di fedeli. «Ecco perché mi sembra importante, allora come adesso, far uscire la persona dalla copertura dell’istituzione e aspettarsi un’autentica testimonianza personale di fede dai portavoce della Chiesa».
Il termine de-mondanizzazione scelto da Ratzinger significa anche questo, una Chiesa in uscita dalle tante forme di mondanità, la liberazione della fede dai vincoli pratici – economici, politici, di gradimento e di opportunismo. «Non so se ho scelto saggiamente la parola Entweltisierung [de-mondanizzazione, ndr], che deriva dal vocabolario sviluppato da Heidegger», scrive il Papa emerito rifacendosi al filosofo tedesco. Uscita dalla mondanità, anche se «non esprime a sufficienza la parte positiva di quel movimento».
Prendendo spunto dalle parole di Ratzinger, potremmo spingerci ad affermare che la Chiesa di domani si reggerà anche sul «lavoro di coloro che si espongono pienamente alle domande del nostro tempo e trovano risposte che effettivamente aiutano a vivere nella fede e fuori». Sfumatura tutt’altro che secondaria. A detta del Pontefice emerito «occorre, infatti, trovare il modo per far sperimentare al maggior numero possibile di persone la vicinanza della Chiesa da un lato, e anche considerare i limiti della resilienza dei singoli operatori pastorali».
Sono cambiati i numeri e le strutture, ma non le risposte alle domande più intime dell’uomo e, in certa misura, non è cambiato neppure l’uomo. Crisi di fede, crisi personale e funzionariale, crisi “di sistema” – di un certo sistema – che si lega rovinosamente ad una rivoluzione nel modo di intendersi come esseri umani, uomini e donne, con profonde ricadute sul senso riconosciuto al nascere, al morire, al generare e alla stessa natura umana, al posto e al ruolo che l’uomo occupa nel creato e al suo rapporto con il Creatore.
Un mondo è finito, un altro è iniziato. Molte cose sono cambiate, non solo in Germania, dalle parrocchie che contavano 60 mila fedeli o dal tempo dell’imperatore Giuseppe II, convinto che si potesse vivere al massimo ad un’ora dalla propria chiesa parrocchiale, ancora meglio se solo mezz’ora a piedi. O dalla Breslau del card. Adolf Bertram, che all’inizio del secolo scorso la percorreva orologio in pugno per intessere una rete di prossimità parrocchiale, perché nessuno fosse costretto a vivere a più di trenta minuti dalla chiesa parrocchiale più vicina. Tutte immagini evocate da Benedetto XVI.
Molto è cambiato anche nella Chiesa, ma non tutto. «Non mi aspetto che un giovane che si prepara al sacerdozio pensi alla struttura che troverà vent’anni dopo», precisa Benedetto XVI. «Lui sa una cosa, ed è la più importante: io sarò sempre necessario ovunque le persone abbiano bisogno del sacerdote, ne abbiano bisogno spiritualmente, per essere condotte a Dio, oltre se stesse e oltre ogni struttura. Come sarà allora la struttura è solo secondario e serve come ausilio per il servizio pastorale».
D’altronde lo ha spiegato anche il papa regnante, Francesco, nella propria lettera al card. Reinhard Marx, frettolosamente – e comodamente – archiviata come l’ennesima dimostrazione dell’immutabile sostegno del Papa al porporato tedesco e alle aspirazioni della Chiesa in Germania, senza spazio alcuno per le critiche. «I sociologismi, gli psicologismi, sono inutili», scrive invece papa Francesco. “Ismi” che sovrabbondano tanto nelle letture quanto nelle presunte soluzioni proposte dal Cammino sinodale in corso in Germania.
«Quello che ho imparato dai giovani non può essere espresso in termini di frasi o contenuti», ricorda Benedetto XVI dei suoi anni come insegnante. «Piuttosto, il modo per comprendere la fede ereditata nel presente e per viverla, soprattutto nello scambio con persone che la cercano ma non la trovano». Una condizione sempre più comune oggi, ma nulla affatto sconosciuta nei decenni passati. Ai suoi giovani Ratzinger faceva notare: «Se uno è dalla parte della luce o dalla parte delle tenebre, alla fine non dipende affatto da quello che una persona dice, ma da quello che è». Concludendone: «Valgono davvero le parole degli antichi greci che ti ho detto nella predica all’inizio della scuola: “Dio ha messo il sudore e la fatica prima dell’efficienza”». La temperatura della Chiesa in Germania si sta alzando ed è ormai torrida. Speriamo aiuti.
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Una puntuale, precisa ermeneutica dell’ultimo scritto del Vescovo emerito di Roma, che molti inattendibili commentatori dovrebbero leggere, meglio se nell’originale tedesco. Mi colpiscono quattro espressioni: “l’irrealismo di una fede confinata nella teoria”: una bella pacca per coloro che discernano senza praticare il Vangelo; “grano e pula ,pesce buono e pesce cattivo” convivono nella Chiesa: una sberla per i farisei che fingono di non sapere che dove regna il bene, s’insinua il male; “cuore e spirito”: uno schiaffo per chi crede che la sola conoscenza ci libera, mentre deve essere unita all’amore; “cercano e non la trovano”: l’amore per Gesù non è geloso, si apre al dialogo con coloro che lo cercano. Una bella sintesi dell’insegnamento teologico di Benedetto XVI!
Grazie, carissimo Edoardo.
Concordo: leggere, pur con tutti i limiti linguistici, la versione originale in tedesco di Benedetto XVI, che menzioni, dà l’opportunità di cogliere sfumature e un respiro ampio che purtroppo sfuggono a cronache che si rincorrono uguali a se stesse.