Se quella di Joe Biden è la fede in crisi di molti cristiani, Donald Trump e il suo entourage sono in grado di strumentalizzare questa crisi di fede. La differenza può apparire sottile, ma è tutt’altro che priva di implicazioni.
Se Joe Biden ha impersonato una fede in crisi, Donald Trump è l’emblema della crisi della fede. Il primo presidente cattolico dopo JFK si è distinto per una presidenza dai contorni tutt’altro che ortodossi: ingenti finanziamenti per la campagna elettorale elargiti da Planned Parenthood, colosso della pianificazione familiare ottenuta tramite aborto; sostegno incondizionato alla cultura woke; frequenti attriti con alcuni settori dell’episcopato statunitense, che ne hanno messo in dubbio la legittimità a ricevere l’Eucaristia (pur incassando in diverse occasioni la solidarietà di papa Francesco); per non parlare dei ripetuti segni di croce giudicati fuori luogo, dall’inaugurazione di un centro culturale dedicato alla storia dei diritti lgbt+ in Nord America alla manifestazione a sostegno dell’aborto in Florida.
Nel complesso, una fede pericolosamente conformista, venata di relativismo e secolarismo, nella quale le ideologie del mondo contemporaneo hanno soppiantato la trascendenza; una spiritualità che ha barattato il proprio ruolo trasformativo con un meno impegnativo quieto vivere, in cui l’accettazione ha la meglio sulla verità. Nulla di nuovo, purtroppo.
Diverso è il caso di Donald Trump. Superfluo discutere dell’appartenenza del nuovo presidente degli Stati Uniti alla Chiesa presbiteriana, più volte messa in dubbio nei fatti. Se quella di Biden è la fede in crisi di molti cristiani, Trump e il suo entourage sono in grado di strumentalizzare questa crisi di fede. La differenza può apparire sottile, ma è tutt’altro che priva di implicazioni. Non è un caso che papa Francesco, riferendosi a Donald Trump e Kamala Harris, abbia parlato di “due mali” – «ambedue sono contro la vita» – fra i quali «scegliere il male minore». Due mali con radici profonde.
Il successo di Trump sta nella crisi della democrazia
Una interessante analisi di Riccardo Nencini per Linkiesta collega il successo di gradimento registrato da Donald Trump, negli Stati Uniti come in Europa e in Italia, alla «crisi durevole della democrazia tradizionale. Il desiderio di un cambiamento profondo viene affidato a movimenti sovranisti che fondano la loro legittimità da una parte sulla ricerca costante di un nemico, dall’altra sul nazionalismo, il contrario della società aperta voluta dai costituenti».
Il risultato, scrive ancora Nencini, sono «queste pulsioni illiberali, questo battere in testa a un sistema democratico per inneggiare alla forza, alla protervia, alla cancellazione della fraternità». In ultima analisi, «aumentano dunque le probabilità di affidarsi a uomini segnati dal destino».
Ma anche in una crisi di fede
Per nostra fortuna, l’analisi lucida di Nencini contiene almeno una falla, laddove sostiene che la storia «non è un giocattolo nelle mani della Provvidenza ma è l’azione umana a determinarne il cammino, e […] può ripetersi almeno nel suo orientamento generale». Che Dio non ci si trastulli è certo, che tralasci di governarla è tutt’altra cosa.
“Destino” e “Provvidenza” sono scelte lessicali interessanti, che la dicono lunga su un tassello sottovalutato in questo scenario di crisi: il crollo della fiducia nel ruolo di guida delle religioni organizzate e la crescente normalizzazione di una quantità di letture individualistiche del proprio credo, pari soltanto al grado di immaginazione dei singoli. È in questa combinazione di fattori che i cattivi modelli soccombono di fronte ai falsi profeti: laddove i primi sono “figli del proprio secolo”, i secondi non si limitano ad incarnare un’epoca, ma la manipolano secondo un interesse che è presentato come talmente superiore da essere divino.
In tempi di incertezza spirituale è comune cercare rifugio in personalità che sembrano offrire un senso di stabilità e sicurezza, figure carismatiche, abili nello smerciare l’illusione di essere in possesso di una risposta semplice alle domande complesse, a cominciare dalla via che conduce fuori dal buio della disperazione e della mancanza di senso. Va da sé che il rischio è di adeguarsi al surrogato di una fede autentica, privata delle dimensioni fondanti dell’incontro e del dubbio, dove a prevalere sulla crescita interiore è la dipendenza esterna.
Valori?
Dalla sponsorizzazione di “teologie” funzionali, come l’esaltazione della prosperità e della tecnocrazia, fino all’autoproclamazione messianica, la retorica pseudo-cristianocentrica dell’esperimento politico di Donald Trump e soci si è spinta ben al di là della – pur singolare – tradizione statunitense. E siamo soltanto all’inizio.
Non stupisce perciò che, per fare sintesi della crescente distanza fra Usa e Unione europea, il vicepresidente JD Vance abbia recentemente evocato «la minaccia dall’interno, l’allontanamento dell’Europa da alcuni dei suoi valori più fondamentali». Verissimo. Tutto sta a capire a quali valori – o presunti tali – ci si riferisca. Vance ne elenca diversi, alcuni più condivisibili di altri.
Come osserva Margie Cullen su Usa Today News, «Vance è relativamente nuovo al cattolicesimo. Cresciuto cristiano ma identificatosi come ateo, si è convertito formalmente al cattolicesimo quando è stato battezzato nell’agosto 2019». Con una “paternità” non indifferente. «Vance attribuisce al filosofo René Girard, che gli venne presentato dall’imprenditore Peter Thiel (co-fondatore di PayPal e azionista di Facebook, ndr) mentre frequentava la Yale Law School, il merito di averlo portato alla fede cattolica. Sul giornale cattolico The Lamp, ha affermato di essere particolarmente influenzato dal “mito del capro espiatorio” di Girard, secondo il quale le civiltà umane sono fondate sulla violenza, su un nemico comune» in grado di catalizzare – per lo più incolpevolmente – rivalità, paure, insicurezze e sentimenti di odio. È giunto il momento di chiedersi chi sarà il prossimo.
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