Fra pochi giorni le contempleremo impotenti, in lacrime, ai piedi di un corpo morto. E poi affaticate dalla corsa e dalla meraviglia di una rivelazione da annunciare. Oggi in Myanmar come ieri in El Salvador.
Ancora non accennano a rallentare la propria corsa per il mondo le immagini di suor Ann Rose Nu Tawng, religiosa birmana delle missionarie di San Francesco Saverio, inginocchiata di fronte agli agenti per implorare la salvezza dei giovani durante le manifestazioni pacifiche pro-democrazia in corso in Myanmar. Mercoledì vi ha fatto riferimento anche papa Francesco: «Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar e dico: cessi la violenza. Anche io stendo le mie braccia e dico: prevalga il dialogo», ha detto il Pontefice. Parole tutt’altro che prive di concretezza, se si va con la memoria a due anni fa e al gesto sconvolgente e rivoluzionario che fu l’inginocchiarsi di papa Francesco davanti agli stessi leader politici del Sud Sudan che in questi anni hanno costretto la popolazione a guerre, umiliazioni, povertà e violenze.
In entrambi i casi immagini iconiche, capaci di suscitare reazioni – anche di critica, immancabilmente – e in grado di scalfire la cacofonia distratta e distraente dell’informazione globale, almeno tanto quanto le coscienze rivestite di giubbotti antiproiettile degli agenti birmani. «Oggi il Paese è come piazza Tienanmen nella maggior parte delle sue grandi città», ha scritto su Twitter il card. Charles Bo, noto per il proprio sostegno ad una più matura valorizzazione di laici e donne nella Chiesa, per la condanna delle violazioni della libertà religiosa ad opera del governo birmano e del colpo di Stato dei militari dello scorso 1° febbraio. Lo stesso card. Bo aveva scelto la fotografia di suor Ann Rose Nu Tawng come immagine di copertina del proprio account Twitter (@cardinalmaungbo), prima almeno che questo venisse sospeso (lo è ancora nel momento in cui si scrive, per «violazione delle regole di Twitter»), suscitando nuovi inquietanti interrogativi sull’effettiva libertà di espressione nel mondo dei social, fatto di compagnie private e di interessi ideologici ed economici.
Ma altre immagini di religiose, in epoche e in contesti molto diversi fra loro, si sono imposte nella storia, anche della Chiesa. Basti pensare alla morte nel 1980 di mons. Óscar Romero, arcivescovo metropolita di San Salvador, del quale il prossimo 24 marzo ricorrerà il 41° anniversario. Nei minuti che seguirono il feroce omicidio furono soprattutto le donne, laiche e religiose, ad accostarsi in lacrime al suo corpo, riverso negli abiti liturgici ai piedi dell’altare, colpito poco dopo aver elevato l’ostia nella consacrazione. Altre immagini passate alla storia, al pari di quelle, successive di pochi giorni, che ritraggono numerose religiose lasciare la cattedrale di San Salvador dopo le violenze che accompagnarono i funerali di Romero. All’ininterrotto martirio di Óscar Romero e del popolo salvadoregno si uniscono anche quelli di padre Rutilio Grande e della giovane attivista Marianella Garcia Villas.
Impossibile ricordare ogni scatto, tanto quanto lo sarebbe racchiudere l’inestimabile contributo delle donne alla Chiesa. Religiose e laiche hanno vissuto dal di dentro la strage di Manila e la sanguinosa occupazione giapponese delle Filippine fra il 1942 e il 1945; hanno medicato le ferite di due guerre mondiali e di un’infinità di altri conflitti; si sono inginocchiate accanto alle vittime delle battaglia di Gettysburg del 1863, negli Stati Uniti, fino a sacrificarsi nelle tante epidemie dimenticate, come le sei religiose delle Suore Poverelle morte nella Repubblica Democratica del Congo nel 1995 a causa dell’ebola per le quali recentemente papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i decreti che ne riconoscono le virtù eroiche: Floralba, Clarangela e Dinarosa, alle quali negli ultimi giorni si sono aggiunte Annelvira, Vitarosa e Danielangela. Vite fatte poesia già nel nome.
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