Abusi sessuali e celibato nella Chiesa. «Il problema più diffuso? Quello identitario». Intervista allo psicologo don Stefano Guarinelli

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Il nuovo Presidente della Cei annuncia un rilancio dell’azione della Chiesa, e la lotta contro gli abusi torna d’attualità. Tema caldo, almeno quanto la formazione dei futuri sacerdoti, il celibato, la diffusa ideologia omosessualista e l’incapacità di trasmettere la fede ai giovani. Intervista allo psicologo don Stefano Guarinelli.


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Priorità al dolore delle vittime. Un report della Chiesa in Italia sulle attività di prevenzione e sui casi di abuso segnalati o denunciati alla rete dei Servizi diocesani e interdiocesani negli ultimi due anni. Un’analisi sui dati di delitti presunti o accertati commessi da membri del clero nel periodo 2000-2021. È la «strada italiana» nella lotta alle mele marce che guastano la Chiesa, una via diversa da quella di Francia e Germania e lontana da una “Spotlight italiana”.

Espressione della 76a assemblea generale della Cei, il cambio di passo ha già un nuovo interprete, il neo-eletto Presidente, il card. Matteo Maria Zuppi. Temi caldi, tanto da farsi strada non soltanto nelle primissime ore dopo l’elezione, ma anche nella copertura mediatica garantita dalla stampa italiana al conflitto in Ucraina. Ma anche divisivi, tanto all’interno della Chiesa quanto nei rapporti con il Pontefice – se sono veri il raffreddamento con i precedenti vertici Cei e il riconfermato gradimento di Francesco per Zuppi. Ma senza dubbio una piccola rivoluzione nell’episcopato italiano, ormai distante da quel mancato «obbligo giuridico [per il vescovo] di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti» rivendicato nel 2012 e subito contestato dalla Congregazione per la dottrina della fede al tempo dell’allora pontefice Benedetto XVI.

Rimane il fatto che fare chiarezza sulle molteplici responsabilità, non solo clericali, degli abusi sessuali su minori e persone vulnerabili e sulla sofferenza inflitta alle vittime significa anche affrontare con decisione altre problematiche che feriscono la Chiesa. Questioni che, si suppone, emergeranno con forza durante il cammino sinodale intrapreso dalla Chiesa in Italia, nella speranza che anche in questo caso si abbia il coraggio di trovare una “via italiana” alla sinodalità, alternativa a quella «delusa» e deludente (e, si dice, dai costi multimilionari) sulla quale si è da tempo incamminata la Chiesa in Germania. Che, a modo suo, ha evidenziato le gravi lacune nella selezione e formazione dei futuri membri del clero, la diffusa ideologia omosessualista, le spinte contrarie al celibato ecclesiastico e a favore dell’ordinazione di donne, l’incapacità di suscitare interesse per la fede nelle nuove generazioni, la crisi – «di sistema» e personale – di molti membri del clero, anche di spicco.

Don Stefano Guarinelli Ne parlo con don Stefano Guarinelli, membro in qualità di psicologo clinico dell’équipe di consulenza psicologica del Seminario Arcivescovile di Milano e professore stabile straordinario e direttore della Sezione parallela della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale presso lo stesso Seminario, dove insegna Introduzione alla Psicologia e Psicologia pastorale. Licenziato in Psicologia presso la Pontificia Università Gregoriana e abilitato all’esercizio della professione presso l’Università La Sapienza, è docente incaricato della Escuela de Formadores di Salamanca (Spagna) e professore invitato della Pontificia Università Gregoriana di Roma e dell’Università Pontificia Salesiana e della Scuola adleriana di psicoterapia di Torino. È redattore della rivista di psicologia, spiritualità e formazione Tredimensioni.

Don Guarinelli, la Chiesa sta attraversando un tempo di crisi, da alcuni ricondotto a poche cause: fra queste, soprattutto al celibato ecclesiastico obbligatorio. È davvero causa di tanti mali?

Dunque, vediamo: se abbiamo un problema e vogliamo indagarne le radici in modo rigoroso, dobbiamo sospendere pregiudizi e precomprensioni, sennò quella ricerca sarà viziata e il suo risultato inattendibile. Il celibato è causa di tanti mali? Vogliamo capire come stanno le cose? Forse sì, forse no, ma il solo modo per capire da che parte andare è quello di ragionare, riflettere, indagare, soprattutto esaminare le molte, moltissime variabili in gioco.

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Tutta questa premessa non è per non rispondere – guarda caso! – alla domanda, ma per stigmatizzare quello che, a mio parere, è il duplice modo di riflettere (ma sarebbe meglio dire “di non riflettere”) sul celibato che caratterizza le discussioni sul tema. Su un versante, il tono è spesso accusatorio. Il che equivale a presupporre che sia già diagnosticato come problema. Sull’altro versante, il modo è apologetico. Il che equivale a dire: ragioniamo, ma comunque stiano le cose, “quello” non può essere il problema. Ecco perché su un tema così, mi pare che le discussioni, dentro e fuori dalla Chiesa, spesso assomiglino a quelle tra opposte tifoserie calcistiche. Molte parole, molta animosità, ciascuno esce dalla “discussione” con le stesse convinzioni che aveva prima di entrarci. Dunque: nessuna utilità.

Personalmente penso che il celibato in se stesso non sia un valore e che invece lo diventi se e solo se esso è celibato “per il Regno”. Quella qualifica è importantissima e non può essere trascurata. Se manca, il celibato può essere veramente un problema. Da ciò, di un prete celibe sarà da valutare se quel suo celibato sia autenticamente “per il Regno”. Non è scontato, men che meno automatico.

“Zitelli”, più che celibi, per usare un’espressione del Papa. Cosa implica, dal punto di vista psicologico, il celibato per un sacerdote?

In estrema sintesi direi, in primo luogo, alcune limitazioni dal punto di vista affettivo e sessuale, ma queste sono note. In secondo luogo, alcune limitazioni dal punto di vista identitario: queste sono meno note e, tuttavia, non sono meno rilevanti di quelle affettive e possono condurre a problemi importanti se non ravvisate. In terzo luogo, un singolare approccio alla realtà e alle relazioni interpersonali, che può diventare molto importante e significativo per la vita spirituale e sociale, ove il “può”, tuttavia, significa che quel passaggio non è scontato e, per questo, va scelto e, soprattutto, coltivato.

Altrimenti, del celibato si rischia di cogliere soltanto la natura “limitante” e, ovviamente, vivere così diventa penalizzante e frustrante. A meno di esaltare la penalizzazione e la mortificazione come fossero un valore e, peggio, un valore cristiano. Non escludo che nella vicenda storica del cristianesimo questo sia accaduto, con il rischio di far coincidere l’ascesi con una sorta di più o meno velato masochismo. È evidente che a queste condizioni il celibato non abbia senso, dunque non sia nemmeno sostenibile. Vorrei sottolineare che al centro dell’etica cristiana non è la mortificazione ma il dono di sé, e che non si tratta della stessa cosa.

Sembra esserci un’attenzione quasi maniacale verso il celibato, nei media, nel pubblico e in alcuni settori della Chiesa. Non trova?

Penso che le variabili in gioco siano molteplici e che richiamandosi vicendevolmente suscitino e rilancino quell’interesse che, effettivamente, pare perfino insolito. Problemi ci sono e sarebbe temerario ignorare che ci siano. Alcuni di quei problemi, però – questo è il mio parere – non vengono direttamente dal celibato, ma dal modo in cui la cultura presenta l’affettività e la sessualità.

Un cristiano non può estraniarsi da alcune istanze della cultura, nemmeno se lo vuole, giacché la cultura – piaccia o non piaccia – è un po’ come l’aria che si respira. Culturalmente, il legame fra esperienza affettiva ed esperienza sessuale non è più dato per scontato. La sessualità extraconiugale, ma perfino quella “extrainterpersonale”, sono sempre esistite, ma oggi godono di un’importante legittimazione di cui prima non godevano. L’accesso all’esperienza sessuale è molto più “facile” e non esige un coinvolgimento. Personalmente considero questo stato di cose una banalizzazione della sessualità e un “errore antropologico”, prima ancora che teologico.

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È indubbio, però, che colui che sceglie il celibato e vive in questa cultura non può rimanere insensibile ad alcuni messaggi, che sono comunque suadenti e che finiscono per attrarre anche coloro che non li sottoscriverebbero e che, a parole, magari continuano a non sottoscriverli. Da ciò, il rischio di viverli in modo trasgressivo o nella condizione della doppia vita, è in agguato. E questo, alla fine, crea molti problemi. E quando di questi si viene a conoscenza, ecco che balzano agli onori della cronaca.

Simmetricamente, direi che il celibato può rappresentare una contestazione più o meno velata di quella cultura affettiva e sessuale. E prendersela con lui, soprattutto quando palesemente “non funziona”, potrebbe rispondere al tentativo di legittimare l’irrinunciabilità di un certo modo di vivere la sessualità, con o senza relazione affettiva. Che è poi un modo per giustificare se stessi e il proprio diritto al disimpegno.

Il celibato è spesso chiamato in causa anche in tema di abusi sessuali nella Chiesa. Il superamento del celibato obbligatorio sarebbe una soluzione?

Non trovo un collegamento diretto fra celibato e abuso, ma sì una fortissima analogia fra abuso e bullismo. In entrambi i casi – l’abusatore e il bullo – si tratta fondamentalmente di due impotenti, a livello complessivo e, dunque, anche a livello psico-sessuale. In questo senso il celibato può farsi complice almeno di una copertura del problema, mettendo apparentemente a tacere quella impotenza.

Siccome, purtroppo, l’abuso è diffuso anche all’interno di esperienze non celibi, occorre, a mio parere, valutare diverse modalità di fare formazione rispetto alle condotte abusanti, sia quale sia la modalità di quelle condotte. Se eliminiamo uno dei complici – il celibato – non eliminiamo il reo. Dunque, il reato può perpetuarsi. Comunque sia, la Chiesa ha il dovere di fare in modo che a livello formativo quella complicità sia intercettata.

Sgombriamo il campo da fraintendimenti: omosessualità e abusi sessuali non sono un binomio. Ciò detto, i dati che emergono dai rapporti sugli abusi nella Chiesa riferiscono sistematicamente che in un gran numero di casi le vittime sono adolescenti maschi e i loro abusatori uomini adulti. Che legame sussiste, se sussiste, fra l’omosessualità nel clero e la tragedia degli abusi sessuali?

Come ho scritto nel libro Omosessualità e sacerdozio, considero quella dell’omosessualità un’etichetta che senza un’adeguata interpretazione dice molto poco di ciò che sta veramente succedendo nella personalità di quella persona che dice di esserlo, ma forse non lo è; che lo è, ma non lo dice; che lo è, ma non lo sa; eccetera. Attualmente, anche a partire dalla legittimazione culturale dell’omosessualità, mi sentirei di affermare la stessa cosa dell’eterosessualità.

Detto questo, aggiungerei una seconda premessa importante: quando parliamo di abusi sessuali dovremmo, almeno dal punto di vista clinico, distinguere fra pedofilia ed efebofilia, ma sui media questa seconda categoria viene raramente chiamata in causa, mentre si usa la prima – pedofilia – come se questa coincidesse, nella Chiesa, con il fenomeno degli abusi operati dai sacerdoti. Accade, invece, il contrario.

Ciò premesso, nella correlazione statistica fra abuso e omosessualità, occorre dunque riconoscere che in quel caso parliamo di comportamenti omosessuali, ma non necessariamente di persone con orientamento omosessuale. Può sembrare una puntualizzazione cavillosa e invece non lo è. Nei casi di efebofilia, infatti, è più probabile che la persona che ne risulta affetta si orienti verso un’altra persona dello stesso sesso. Ma ciò dipende dal dinamismo sottostante e non dall’orientamento in se stesso. Ancora una volta è dunque necessaria un’interpretazione del dato.

Inoltre, nel caso di sacerdoti, occorre valutare se la correlazione sia legata anche ad altre variabili. Ad esempio: è probabile che il sacerdote abbia maggiori frequentazioni con gruppi di ragazzi, maschi, in contesti di prossimità, rispetto a quanto può succedere con le ragazze: un oratorio estivo, un campeggio, una gita con i chierichetti possono creare situazioni di vicinanza che si produrrebbero più difficilmente con ragazze. Condizioni patologiche, come la pedofilia e l’efebofilia, hanno comunque un problema con i confini, psichici e fisici. E laddove questi vengono meno – dormire nella stessa stanza, accompagnare i ragazzi in piscina – la vulnerabilità e il rischio di perdere il controllo di sé possono essere maggiori.

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Gli abusi sessuali sono probabilmente il fenomeno più drammatico che sta vivendo la Chiesa, ma non l’unico. Fra i preti sembrano sempre più diffusi droga, suicidi, malaffare, solitudine. C’è una radice comune?

Gli abusi sessuali sono una tragedia – per le vittime, innanzitutto – ma non sono il problema più drammatico. Lo è la ricaduta che questo ha sull’opinione pubblica, anche a motivo del modo maldestro in cui all’interno della Chiesa è stato gestito. Non sono poi in grado di dire se veramente siano in crescita fenomeni quali la droga, il suicidio, il malaffare. Ritengo che i contesti geografici enfatizzino alcuni problemi e non altri. Ad esempio: l’alcolismo è una dipendenza diffusa tra i preti soprattutto in aree geografiche all’interno delle quali, comunque, l’alcolismo è diffuso trasversalmente nelle diverse fasce di popolazione e degli stati di vita.

Ritengo che il problema più diffuso sia quello identitario: ovvero la percezione di una certa insignificanza sociale che, purtroppo, non viene risolta in modo spirituale, come credo dovrebbe. La “colpa” sta nei secoli di storia che hanno garantito alla Chiesa e ai suoi ministri un ruolo, anche sociale, che li ha privilegiati, ma, purtroppo, anche a discapito del Vangelo. L’identità psicologica – il Sé – è un dinamismo centrale della personalità e la sua debolezza spiana la strada alle compensazioni. Il potere è una di queste e, contrariamente a quanto si pensi, nasce dalla debolezza, non dalla forza.

Come accennavo poc’anzi, il potere del bullo è quello di un impotente. Non si tratta di un atto di forza, ma di un sopruso. Se non coglieremo la necessaria evoluzione in un senso autenticamente spirituale di quella perdita di identità, non risolveremo quei problemi, sia quale sia la forma che andranno ad assumere.

Che consigli darebbe, da prete e da psicologo, ai fedeli che si trovano ad affrontare questo tempo? E magari a qualche sacerdote o seminarista…

Alla fine degli anni ’90 l’Istituto di Psicologia dell’Università Gregoriana di Roma mise a punto un test proiettivo denominato Gospel Summary. Colui o colei che vi si sottoponeva doveva semplicemente scrivere un riassunto del Vangelo cercando di non superare quanto poteva stare su un foglio A4. I protocolli sono risultati molto interessanti, e per molti aspetti perfino sorprendenti, perché ciascuno vedeva del Vangelo cose personali e anche molto diverse fra di loro.

Non casualmente – così credo – il primo peccato del decalogo è proprio quello dell’idolatria. Psicologicamente parlando sarebbe come dire: occhio alle proiezioni! Mettiamo su Dio, o facciamo di Lui, ciò che Lui non è, giungendo a deformazioni inaccettabili che pesano sulle persone e che difficilmente fanno percepire quel Vangelo come “buona notizia”. Il consiglio? Torniamo al Vangelo così com’è. Smascheriamo tutte le proiezioni – personali, sociali – che vi abbiamo sovrapposto. Il cristianesimo oggi è una minoranza… forse; ma quella minoranza, a quale Vangelo crede? E quella maggioranza, a quale Vangelo eventualmente non crede? Ben inteso che ciascuno ha il diritto di credere e di non credere. Ai cristiani direi di fare di tutto perché il Vangelo sia annunciato per quello che è, non dando per scontato che per il fatto di essere cristiani, sappiamo veramente di cosa parla.

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3 commenti su “Abusi sessuali e celibato nella Chiesa. «Il problema più diffuso? Quello identitario». Intervista allo psicologo don Stefano Guarinelli”

  1. “Gli abusi sessuali sono una tragedia – per le vittime, innanzitutto – ma non sono il problema più drammatico. Lo è la ricaduta che questo ha sull’opinione pubblica, anche a motivo del modo maldestro in cui all’interno della Chiesa è stato gestito.”

    Ancora una volta mi pare qui di capire che la preoccupazione principale sia il danno di immagine della chiesa di fonte all’opinione pubblica: un punto di vista che ha prodotto danni incalcolabili per decenni e che stupisce risentire qui.

    Per la questione della correlazione tra abusi sessuali e omosessualità, mi pare non si colga un dato elementare: la percentuale di preti omosessuali è molto alta, decisamente superiore a quella della popolazione generale. Alcune stime parlano di percentuali che variano dal 30% al 50% di preti o consacrati con orientamento omosessuale, e spesso con una fore immaturità sessuale. Da sempre il sacerdozio ha attratto giovani omosessuali, e spesso la formazione dei seminari ha disatteso il discernimento (è noto che la diocesi di Imperia-Ventimiglia anni fa ordinava preti omosessuali espulsi da altri seminar…),
    Quindi è ovvio che, avendo questi preti possibilità ci contatti con ragazzi (negli oratori etc.) la % di abusi verso maschietti è alta.
    Suggerire la lettura del recente libro “La casta dei casti” del sociologo Marc Marzano, ordinario all’Università degli Studi di Bergamo, per comprendere meglio il fenomeno.

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    • Grazie della puntualizzazione, Stefano. Sono certo – e personalmente fortemente auspico – che non vi sia una preoccupazione principale per il “danno d’immagine” derivato alla Chiesa, ma l’osservazione che il modo troppo spesso non corretto in cui sono (stati?) gestiti i casi di abuso abbia aggiunto ulteriore sofferenza a già grave sofferenza.

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