In tante comunità di fede si è perduta la capacità di essere «coscienza dello Stato», come diceva Martin Luther King. Perché se Kirill non può essere chierichetto di Putin, più d’uno vorrebbe Francesco chierico di Stato. Un linguaggio che, ad ovest dell’Atlantico e ad est del Dnepr, sa tanto di campagna elettorale quanto di strategia di reclutamento.
La storia è costellata di guerre di religione, e ancora oggi i conflitti su base religiosa nel mondo non si contano. I cristiani sono il gruppo più perseguitato, sebbene non il solo, dall’Afghanistan al Pakistan, dall’Arabia Saudita a Cina e Corea del Nord. Condizione che induce a riflettere sul passato e sugli eventi del presente.
Nel moderno Occidente, dove alla persecuzione armata si preferisce la più subdola discriminazione e la violenza sulle coscienze, la fede è sempre più spesso utilizzata come la più squallida delle giustificazioni alla propria arbitrarietà. Lo ha dimostrato, nella solitudine delle case e nel ronzio dei respiratori, uno dei grandi eventi della nostra epoca, la pandemia di Covid-19. Lo prova, ora, la morte collettiva e deflagrante di un’altra tragedia del nostro tempo, il conflitto in Ucraina.
La guerra nel cuore della fede
Fin dai primi giorni, la guerra della Russia in Ucraina ha condotto la violenza anche nel cuore della fede. La complessa storia dell’area ha di certo contribuito nei secoli a disegnare una delicata geografia delle religioni, ma questa da sola non basta a spiegare quanto sta avvenendo. Dalla “benedizione” della guerra alla retorica degli opposti (presidenti), tutto ha contribuito ad una guerra «sacrilega, blasfema e selvaggia». Ad una guerra così diversa dalle altre, eppure del tutto banale in quanto a violenza e falsità.
Spese favolose in armamenti
Se le contrapposte fazioni, per interessi del tutto simili, hanno trascinato persino il Papa nella retorica della guerra, calibrandone ogni silenzio e misurandone ogni più piccola parola, quanto vale appellarsi alla chiarezza della storia? «Chi mette nei suoi programmi uccisioni di innocenti o rovine di proprietà altrui non potrà mai richiamarsi alla fede», incalza Joseph Ratzinger nel 1981 (Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio, Cantagalli, 2018). A che vale ricordare, ancora prima, il sogno di un’Europa che sia comunità dalle sponde dell’Atlantico agli Urali, da Benedetto a Cirillo e Metodio, che fu di Giovanni Paolo II quando l’Europa era ancora divisa dal ferro della cortina e dal cemento di Berlino?
A che vale andare ancora più indietro, se il campo non è sgombro da dubbi per l’unica ragione che è conveniente rimangano? «Riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia», scrive senza mezzi termini nel 1963 Giovanni XXIII, pastore e diplomatico di lungo corso, nell’enciclica Pacem in terris. «Però tra i popoli, purtroppo, spesso regna ancora la legge del timore. Ciò li sospinge a profondere spese favolose in armamenti: non già, si afferma, […] per aggredire, ma per dissuadere gli altri dall’aggressione».
A che vale, se l’entusiasmo per la guerra che ha contagiato l’Occidente – anche l’Occidente che si dice cattolico – dopo l’invasione russa dell’Ucraina ha già da tempo incluso omicidi e distruzioni nei propri programmi politici, economici e mediatici?
Strategie e caricature
In una manciata di settimane i richiami sgradevoli e sconclusionati alla fede cristiana di Vladimir Putin e Joe Biden, due dei tre principali protagonisti politici di questa guerra combattuta immolando le vite d’altri, hanno fatto sembrare una burla i rosari esibiti in piazza e gli impegni, mai rispettati, di troppi giuramenti politici. In un colpo solo, il “dare la vita per gli amici” ha fatto del sacrificio una strategia bellica al servizio di Putin e il “non abbiate paura” ha confermato Biden la caricatura di un politico cattolico, più interessato ad aprire le porte ai poteri del mondo che non a Cristo.
Un linguaggio che, ad ovest dell’Atlantico e ad est del Dnepr, sa tanto di campagna elettorale quanto di strategia di reclutamento. Perché se «il Patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin», sul versante opposto con eguale forza più d’uno vorrebbe il Papa «chierico di Stato», con sulle labbra il linguaggio della politica e non quello di Gesù, piegato alle logiche della crociata, abbia essa come obiettivo la guerra in Ucraina oppure uno sguardo diverso sull’uomo e la donna. Tacendo, per esempio, «la constatazione della realtà: la Siria, lo Yemen, l’Iraq, in Africa una guerra dietro l’altra. Ci sono in ogni pezzettino interessi internazionali».
È tristemente vero che in tante comunità di fede si è perduta la capacità di essere «coscienza dello Stato», come diceva Martin Luther King. «Alla Chiesa deve essere ricordato che non è la padrona o la serva dello Stato, ma piuttosto la coscienza dello Stato». E non può essere coscienza – ma solo aggiungere altro dolore – chi insiste nel richiamarsi alla fede a giustificazione della violenza.
Abele contro Caino
Metafisica, esoterismo e idolatrie che fanno spavento. Chiese nazionali e nazionalismi di Chiesa. Distruzione di luoghi di culto e dei simboli di una religione che si è fatta popolo, come i memoriali di Baby Yar a Kiev e di Drobitsky Yar alla periferia di Kharkiv. E, ancora, la Theotókos – la Madre di Dio – Agostino e Tommaso d’Aquino. Teologia e “guerra giusta”. Un’infinità di Papi.
Addirittura Caino e Abele, quasi a voler forzare la mano, nella guerra fratricida, persino alla pagina biblica. Quella pagina che è uno dei tanti “scandali” della Bibbia, e forsanche del cristianesimo, e che si contrappone, oggi, al vero «scandalo […] terribile» della spesa per le armi. Di più, vera e propria (anti) «coscienza» dell’armamento. In un tempo segnato dalla guerra, dovrebbero essere la filosofia e la teologia a governare i pensieri forti. Invece a farlo non è che il più debole degli interessi.
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