Tra Vangelo e pauperismo. Ma in Francesco uno ha già vinto

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Tempo di dichiarazioni dei redditi, 8 per mille e polemiche sulla ricchezza della Chiesa cattolica. Con papa Francesco come alleato? Non è detto: il nome e la storia del Papa dicono un’altra cosa.

Da qualche giorno gli italiani sono alle prese con il consueto rito della dichiarazione dei redditi, costretti a districarsi controvoglia fra aliquote e adeguamenti fiscali di anno in anno più sfuggenti. A corollario della maratona delle tasse sono arrivate anche quest’anno le consuete campagne pubblicitarie su TV e giornali pensate per attirare gli ambìti fondi dell’8 per mille, puntualmente accompagnate dal consueto tenzone mediatico che mira a sottrarre quote alla Chiesa cattolica. Il motivo, anche se celato, è legittimo e presto detto: mors tua, vita mea. Vale a dire: meno per te, di più per me.

Se non può sfuggire – se confermato – il milione di immobili riconducibili alla Chiesa cattolica sparsi in tutto il mondo e Oltremanica gli investimenti milionari in Google scuotono la Chiesa anglicana, in Italia è curiosa la piega che la discussione sembra aver preso quest’anno, con più di un’associazione e di una Chiesa (valdese in prima linea) che sottolineano polemicamente le spese liturgiche cui la Chiesa cattolica fa fronte anche attingendo ai fondi dell’8 per mille. Un introito cospicuo, del quale sembra che solo un quarto venga impiegato in attività umanitarie, mentre la gran parte venga utilizzato per le esigenze di culto e della pastorale, la TV, i tribunali ecclesiastici, la costruzione e manutenzione di edifici e per il sostentamento del clero.

A questo proposito, è interessante leggere sulle pagine dell’Avvenire di qualche giorno fa, nella rubrica “Il direttore risponde”, la lettera di un lettore che denuncia la crescente contrapposizione fra liturgia e carità, calici d’oro e pane ai poveri, cui segue l’equilibrata risposta del direttore del quotidiano della Cei, Marco Tarquinio. Confessando la propria fatica «a capire la ‘garanzia’ contenuta nella frase “Non un solo euro sarà usato per il culto”» al centro di uno spot della Chiesa valdese, Tarquinio sottolinea il valore di «amore, di devozione e di fedeltà che il credente offre a Dio» attraverso il culto. Ad onor del vero, va detto che anche gli spot mandati in onda dalla Chiesa cattolica, quest’anno meno numerosi del solito, hanno da sempre mostrato pressoché esclusivamente le attività caritative delle quali la Chiesa si fa carico. Una scelta di marketing pluriennale, anche se sempre più in linea con il pontificato di Francesco.

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Proprio quest’ultimo è indicato da più parti come il principale alleato nella guerra condotta contro le casse della Chiesa (e dello Ior, che di per sé non gode forse più di ottima salute). Il Papa dei poveri, vale a dire il Bergoglio del pauperismo. Il Papa della riforma economica della Chiesa, vale a dire il Bergoglio di una Chiesa svuotata di ogni sua proprietà materiale. Anche il recente discorso del Pontefice in occasione dell’apertura della 69a assemblea generale della Cei sembra aver dato spago alla visione che vorrebbe papa Francesco emulo del santo d’Assisi, pronto a liberarsi dei vestiti di preti e vescovi, oltre che dei propri.

In realtà, pur richiamando i prelati alla sobrietà, con il suo intervento il Pontefice ha riproposto l’equilibrio che da secoli governa – o dovrebbe governare – l’atteggiamento del cristiano nei confronti del denaro: «mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio». Vale a dire: il tempio in ordine e il pane ai poveri. Perché anche gli affamati nel corpo hanno diritto a godere del bello e non solo di qualcosa da mettere sotto i denti. E il bello, lo sappiamo, va curato, custodito e reso fruibile, anche attraverso i 920 cantieri attualmente aperti dalla Chiesa cattolica per il restauro di altrettanti tesori d’arte – italiana – grazie anche ai fondi raccolti con l’8 per mille, come ha ricordato mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei. Cantieri attraverso i quali migliaia di lavoratori mantengono la propria famiglia.

Nessuna contrapposizione, dunque. Guardando al nome e alla storia di papa Bergoglio, questo non stupisce. Il nome scelto da pontefice – suggeritogli dal felice appello del card. Hummes a non dimenticarsi dei poveri – parla chiaro. Il Santo di Assisi, poverello per eccellenza della Chiesa, più volte richiamò custodi e chierici alla necessità che «i calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, debbano averli di materia preziosa» (Prima lettera ai custodi, FF 241), tanto che «un giorno volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero nel luogo più degno possibile il prezzo della Redenzione» (Tommaso da Celano, Memoriale o Vita seconda, 201, FF 789).

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Anche l’ordine di appartenenza dell’attuale Pontefice suggerisce una chiave di lettura del suo pensiero. Se è vero infatti che il gesuita nec rubricat nec cantat, questo non impedì alla Compagnia di Gesù di qualificarsi fra i maggiori committenti d’arte barocca dell’età moderna, uno stile certo non famoso per la povertà delle sue architetture. Tutto sta infatti nel comprendere il significato dell’arte e della ricchezza liturgiche.

«La questione dell’oro è un problema dell’epoca moderna – ha spiegato in una recente intervista per la trasmissione L’arte della Misericordia padre Marko Ivan Rupnik, fra i più apprezzati artisti della Compagnia di Gesù – perché dal Rinascimento e poi dall’epoca moderna noi accostiamo la bellezza alla ricchezza, mentre questo non c’è mai stato prima nella nostra tradizione cristiana, perché la questione della preziosità è l’espressione della fede e dell’amore. Quando cala fede, quando cala l’amore, uno non capisce perché dovrebbe donare a Dio».

Non stupisce, pertanto, che i cristiani di ogni tempo, anche quelli vissuti in povertà per condizione o per scelta, abbiano ornato di preziosità e bellezza i luoghi di culto e gli oggetti con i quali celebrare i misteri della salvezza. In questo senso arte e architettura assumono un significato che va al di là del puro piano materiale, tanto più in una chiesa, nella quale – ha proseguito padre Rupnik – «le pareti non sono per la protezione dalla pioggia e dal vento, ma sono la carne del corpo di Cristo, sono l’autoritratto della Chiesa, cioè si fa vedere chi siamo noi come corpo di Cristo». Un Corpo che è da soccorrere nei fratelli, ma anche da onorare per la divinità che gli spetta.

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