Entro la fine dell’anno la Chiesa in Italia avrà un “nuovo” Padre Nostro? È quanto emerge dall’ultima riunione del Consiglio permanente della Cei. In realtà nulla di nuovo. Se ne discute da anni e in tempi non sospetti anche il Don Camillo di Guareschi aveva avanzato una sua proposta.
Entro la fine dell’anno la Chiesa in Italia potrebbe avere un “nuovo” Padre Nostro. Questo almeno stando a quanto è emerso dall’ultima riunione del Consiglio permanente della Cei, che ha deciso di convocare dal 12 al 14 novembre prossimi un’assemblea straordinaria dei vescovi per discutere ed approvare la terza edizione del Messale Romano, con la quale dovrebbe vedere la luce anche la nuova versione del Padre Nostro.
In verità nulla di nuovo, se si considera che la decisione della Cei di proporre una diversa traduzione della sesta petizione della preghiera più importante dei cristiani risale ai primi anni Duemila. L’edizione 2008 della Bibbia, infatti, al celebre passo di Mt 6,13 introduce già il “non abbandonarci alla tentazione” in luogo del “non ci indurre in tentazione” (dalla versione latina “et ne nos inducas in tentationem”). L’attuale applicazione al testo liturgico delle decisioni prese allora su quello evangelico non sarebbe, quindi, che una logica e coerente conseguenza, agevolata da un Pontefice – Francesco – che non ha fatto mistero del suo appoggio alla nuova versione, così come ad un certo libero decisionismo da parte delle conferenze episcopali.
Soltanto una questione di termini, dunque? Non proprio. Ad ammettere che la questione del Padre Nostro sia (anche) esegetica è lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, che al n. 2846 chiarisce che «tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in”, “non lasciarci soccombere alla tentazione”». Che a muovere i vescovi, però, non siano soltanto considerazioni di carattere filologico è evidente. Non si spiegherebbe, altrimenti, la scarsa fortuna che ha finora accompagnato il pro multis di ratzingeriana – ed evangelica – memoria, filologicamente ineccepibile ma da anni lettera morta. Due pesi e due filologiche misure? È evidente che a motivare la decisione dei vescovi italiani in merito al Padre Nostro sia una combinazione di ragioni teologiche, esegetiche e catechetiche, come traspare anche da una recente puntualizzazione di Francesco, secondo il quale «pregare non è ripetere a pappagallo delle frasi».
I recenti sviluppi dell’affaire Padre Nostro hanno comunque tutta l’aria di un successo postumo per l’abate Jean Carmignac, fra i più noti e accesi avversari dell’indurre in tentazione. Ma per un problema che (forse) si risolve, un altro (e uno solo è un’ipotesi ottimistica) potrebbe venirsi a creare. Se, infatti, l’Ave Maria ha da sempre creato più di una difficoltà nei momenti di preghiera ecumenica, il Padre Nostro aveva offerto un importante terreno di incontro. Almeno finora, visto che buona parte del mondo riformato, luterani e anglicani in testa, si tiene cara la traduzione di Lutero e della Bibbia di re Giacomo: “führe uns nicht in Versuchung” e “and lead us not into temptation”, vale a dire proprio il vituperato “non ci indurre in tentazione”.
Come spiegare questa nuova difficoltà al pensiero mediatico dominante e anche ad una certa parte di Chiesa a pochi mesi dalle entusiastiche celebrazioni dei 500 anni dalla Riforma? Difficile dirlo. Dal canto suo, da buon vecchio tradizionalista, il Don Camillo di Guareschi in tempi non sospetti aveva avanzato una sua proposta: «Il Pater Noster non dovrebbe più dire “liberaci dal male” ma “liberaci dal benessere”». Probabilmente non un buon lezionario, ma di certo una buona lezione.
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