Nella sostanziale indifferenza fattiva della gran parte delle potenze mondiali e dei maggiori media nazionali ed internazionali, la sorte dei cristiani d’Iraq, fra i quali spiccano gli appartenenti alla comunità di Mossul, nel nord del Paese, appare ogni giorno sempre più appesa ad un filo, in molti casi già spezzato.
Nei giorni scorsi l’autoproclamato Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isil), dopo aver costretto alla fuga i cristiani delle città del nord del Paese, aveva dato mostra di voler tornare sulla propria decisione, dettando alcune condizioni per il rientro dei cristiani nelle proprie case. Fra esse, di particolare rilievo la richiesta del pagamento di una somma di denaro a titolo di “tassa di protezione”. Questa moderna versione della tradizionale jizya, prevista dalla sharia per i non-musulmani residenti in terra islamica, si configurerebbe nel caso dei cristiani d’Iraq fra i 450 dollari mensili (una cifra ragguardevole per gran parte di coloro che vivono nel nord dell’Iraq) e non meglio precisate «larghe somme». Per coloro che non fossero in grado di pagare l’imposta, le scelte possibili non sarebbero che la conversione all’islam, la fuga senza proprietà personali o il martirio.
Il “patto di protezione” è in realtà un’istituzione ben più antica dell’Isil. Opzione per i non-musulmani (dhimmi, “gente protetta”), la storia del “patto di protezione” e della corrispettiva imposta di capitazione o di “compensazione” (jizya) risale ai primi secoli dell’espansione islamica. Abolita nell’Impero ottomano soltanto alla fine del XIX secolo, la jizya garantiva alla “gente protetta” un certo grado di libertà religiosa, almeno privata, la possibilità di scegliere, entro certi limiti, residenza e mestiere e l’esenzione dal servizio militare (fatte salve le aree e le epoche nelle quali venne praticato il devscirme, la “raccolta di bambini”, un sistema di arruolamento forzoso di bambini appartenenti a famiglie non-musulmane, in vigore dal XIV al XVII secolo nei territori dell’Impero ottomano).
La jizya, tradizionalmente richiesta dalle autorità islamiche a cristiani, ebrei e agli appartenenti ad altre religioni monoteiste non islamiche, costituisce una elemento cardine della dhimma, tanto che nel Corano il pagamento della jizya da parte dei non-musulmani è stabilito come condizione per la cessazione del jihād («Combatti coloro che non credono in Dio né nel Giorno del Giudizio, né ritengono vietato ciò che è stato proibito da Dio e dal suo Messaggero, né riconoscono la religione della Verità, [anche se sono] del Popolo del Libro, finché non paghino la jizya accettando di sottomettersi, e si sentono sottomessi». Corano, IX, 29). Di ammontare non fisso per l’intero mondo islamico, la tassazione per i dhimmi costituì in molti casi una prosecuzione o un aggravio della tassazione cui già erano sottoposti prima della conquista musulmana. Oltre alla jizya era prevista una seconda imposta, il kharāj, di tipo fondiario.
In ultima analisi, ciò che maggiormente stupisce nelle tragiche vicende che nel presente stanno coinvolgendo le comunità cristiane del Medio Oriente è l’indifferenza che caratterizza esclusivamente il cosiddetto mondo occidentale. A conferma di ciò, si consideri che se è da luglio che in Iraq l’Isil ha incrementato le violenze a danno dei cristiani, è dallo scorso anno che lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante ha dato l’assalto a vaste aree della Siria e alla città di al-Raqqa, dove da allora molti – non solo cristiani – hanno pagato con la morte l’opposizione all’Isil. Di notevole rilievo anche il recente caso di Mahmoud Al ‘Asali, musulmano, professore del dipartimento di pedagogia dell’Università di Mossul, ucciso perché reo di aver preso posizione contro i metodi dell’Isil, da lui giudicati contrari ai dettami dell’islam. Nel mondo mediorientale – cristiano e non – è stata altresì lanciata la campagna #i_am_iraqi_i_am_christian («Sono iracheno, sono cristiano»).
Dal luglio scorso a Mossul i guerriglieri del Califfato hanno cominciato a segnare con la lettera “N” (per Nasrani, «nazareni», «seguaci del Nazareno») le case dei cristiani e con la “R” (per Rafidah, «coloro che rifiutano»), quelle di Shabak e turcomanni sciiti. In entrambi i casi la volontà è quella di rendere più facilmente identificabili le abitazioni, con tutto ciò che ne consegue, ed escluderle, fra l’altro, dalla distribuzione di acqua e cibo. In segno di vicinanza ai cristiani colpiti da questa ennesima forma di intolleranza, sono stati lanciati gli hashtag #WeAreN («Noi siamo N») e #IAmNazrene («Io sono nazareno»).
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